domenica 17 marzo 2013

Gli orrori della Guerra - La Linea Gotica


L'estate scorsa abbiamo intervistato un anziano operaio che lavorò oltre quarant'anni fa alla costruzione del Cimitero Militare Tedesco sul Passo della Futa (metri 903 sul livello del mare), uno dei più grandi in Italia, che raccoglie i resti di oltre ventimila caduti tedeschi. Il Passo della Futa mette in collegamento Firenze e Bologna, ed era un punto strategico di vitale importanza tanto da dover essere incluso nella "Linea Gotica", la linea difensiva che i nazisti idearono per contrastare l'avanzata alleata da sud. Superare la linea Gotica fu un osso piuttosto duro e costò perdite umane imponenti. Diamo ora voce ad alcuni brani tratti dal libro "La montagna e la Guerra", edito alcuni anni fa da Aspasia, mentre in coda troverete l'intervista realizzata l'estate scorsa.



Ricordiamo brevemente che la Linea Gotica era costituito da un sistema di difese fisse tracciate lungo i crinali dell’Appennino da Pesaro a Massa Carrara, il cui progetto e la cui realizzazione erano stati effettuati dai tedeschi, con l’utilizzo in forma coatta di decine di migliaia di lavoratori della Todt (l’organizzazione tedesca del lavoro), all’indomani dello sbarco alleato in Sicilia (10 luglio 1943), allo scopo di difendere la pianura Padana, strategicamente importante per le sue industrie, per i suoi fertili campi e per l’accesso al Nord Europa attraverso il Brennero e all’Est attraverso Trieste e la gola di Lubiana. Questo sistema difensivo, che nulla aveva a che spartire per imponenza di uomini, mezzi ed armamenti con la Linea Maginot francese o con il Vallo Atlantico tedesco sulle coste della Manica, era realizzato sfruttando al meglio le opportunità offerte dal terreno con postazioni prevalentemente costruite con utilizzo di legname, terra e massi alternate a poche difese artificiali, tutte armate in modo essenziale e dotate di pochi uomini: e questo non certo per sottovalutazione della importanza delle necessità dell’apparato difensivo, ma piuttosto per la disperata carenza di mezzi, di personale e di tempo.
Per una più comprensibile descrizione dei fatti e degli schieramenti in campo, prenderemo in considerazione gli eventi accaduti nei territori compresi a grandi linee fra la valle del Santerno a est e la valle del Reno e del Samoggia a ovest e fra la Linea Gotica a sud e la via Emilia a nord, nel periodo compreso fra il 13 settembre 1944 e il 21 aprile 1945.

La conca di Firenzuola e la valle del Santerno


Nella zona di nostro interesse la struttura difensiva della Linea Gotica vedeva un susseguirsi di postazioni e di camminamenti appoggiati alle creste dell’Appennino che si distendevano dal Passo del Giogo al Passo della Futa e da qui al Monte Tavianella, sovrastante Castiglione dei Pepoli, per proseguire verso la valle del Reno sullo spartiacque fra Porretta Terme e Pistoia. Il Passo della Futa rappresentava il tratto più vulnerabile perché l’orografla dei luoghi non era particolarmente accidentata ed anzi il declivio si prospettava dolce, senza ostacoli naturali e con ampie distese di campi coltivati, con ampia possibilità di impiegare i mezzi corazzati. Questo aveva spinto i tedeschi a rinforzare particolarmente il dispositivo difensivo in quanto ipotizzavano che gli Alleati avrebbero naturalmente scelto l’ostacolo meno duro per scatenare la loro offensiva. Il sistema difensivo fu posto attorno all’abitato di S. Lucia, protetto con un fossato anticarro lungo 5,5 km per evitare l’uso di mezzi corazzati da parte alleata. Informati della consistenza delle difese attorno al Passo della Futa dal loro servizio di controspionaggio, basato principalmente sulle notizie che portavano i lavoratori assunti a forza dalla Todt e che riuscivano a fuggire, gli Alleati spostarono la direttrice del loro attacco principale contro le truppe attestate attorno al Passo del Giogo. Un’adeguata preparazione vide l’intervento della aviazione e dell’artiglieria che a partire dalla notte fra il 12 ed il 13 settembre iniziarono a martellare le postazioni tedesche, difese dai reparti della 4.a divisione paracadutisti del 1° corpo paracadutisti della XIV armata, con micidiali bombardamenti estesi a tutta la lunghezza del fronte per non palesare al nemico il punto preciso ove sarebbe stato portato l’assalto principale (ad eccezione di alcune truppe reduci dagli aspri combattimenti di Anzio, la maggior parte dei difensori erano giovani mandati a combattere con soli tre mesi di addestramento). Per dare una idea della disparità di mezzi e di uomini messi in campo dalle due parti basterà ricordare come le divisioni tedesche avessero mediamente la metà degli effettivi regolarmente previsti e come ogni divisione dovesse tenere mediamente un fronte lungo una quindicina di chilometri, equivalente a circa 150 uomini per ogni chilometro. Tali bombardamenti, portati in profondità per colpire nei paesi posti nelle immediate retrovie i rincalzi di uomini e mezzi, vennero effettuati in particolare il giorno 11 settembre a Firenzuola (la cui popolazione era fuggita sui monti circostanti e che comunque già dal 10 aveva ricevuto ordine di evacuazione dal comando tedesco), il 12 a Baragazza (più di quaranta morti fra i civili), la notte fra il 12 e il 13 a Bruscoli (svariate vittime fra i civili), in varie date a Castiglione dei Pepoli (alcune vittime), il pomeriggio del 22 a San Benedetto Val di Sambro (alcune vittime). Gli uomini del 338° reggimento di fanteria della 85.a divisione iniziarono il loro attacco alle prime ore del mattino del 13 settembre diretti verso le pendici del Monte Monticelli e di Monte Altuzzo; dopo quattro giorni di sforzi sanguinosi e di disperata difesa germanica, gli Alleati conquistarono la sella del Passo del Giogo ed obbligarono i tedeschi ad una rapida ritirata verso la valle del Santerno e le montagne che le facevano da contorno. Le truppe alleate, dopo che la 310.a compagnia genio ebbe gettato un ponte Bailey, entrarono in Firenzuola alle ore 16 del 21 settembre e la trovarono deserta ed irta di macerie fumanti: anche il palazzo comunale, magnifica costruzione del ‘300 in pietra serena era stato distrutto. La stessa sera questa località venne colpita da un altro bombardamento di artiglieria, questa volta da parte germanica, a cui gli americani risposero con l’intervento della compagnia chimica che predispose uno schermo di nebbia artificiale a difesa dei possibili obiettivi e a protezione dei convogli dei rifornimenti. Il paese, distrutto nella quasi totalità, venne ulteriormente danneggiato dagli Alleati che demolirono case altrimenti riparabili allo scopo di costruire parcheggi più comodi per i loro automezzi. Poche decine di persone riuscirono a coprire con mezzi di fortuna alcune delle case meno danneggiate della periferia, ma circa duemila senzatetto trovarono un alloggio in stalle e capanne soffrendo la fame, il freddo e le malattie: in particolare durante i mesi successivi il tifo fece alcune vittime. La notte stessa del 21, accompagnate da una pioggia intermittente, le avanguardie della 88.a divisione si mossero in direzione di Castel del Rio, incontrando una scarsa resistenza; approfittando delle tenebre e di una migliore conoscenza dei luoghi, una pattuglia tedesca catturò un intero posto di comando di battaglione americano. Comunque il giorno 23 settembre Monte della Croce, posto sulla destra del Santerno, era stato catturato (dalle truppe della 88.a divisione schierata alla destra della 85.a), così come sulla sinistra era stato preso dalla 85.a Monte la Fine e successivamente il 26 Monte Pratolungo. Alla sinistra della 85.a divisione era schierata la 91.a il cui compito principale era quello di impegnare le truppe nemiche e di assicurare il fianco sinistro della 85.a con un attacco nella zona di S.Agata e del Passo della Futa: la sua direttrice di attacco prevedeva lo scavalcamento del crinale, l’occupazione della zona alle sorgenti del Santerno, la prosecuzione dei combattimenti in direzione di Pietramala e del Passo della Raticosa. Spezzato il loro schieramento con la perdita del Giogo, i tedeschi dovettero iniziare a ritirarsi dalle posizioni più vicine per evitare di essere presi alle spalle: misero quindi in atto la solita tattica dilatoria già applicata durante tutta la campagna d’Italia, arroccandosi a difesa in ogni luogo che desse il vantaggio della posizione.

Fra il Passo della Futa e Monte Tavianella


Alla sinistra della 91.a divisione si trovava schierata la 34.a divisione di fanteria (soprannominata «Toro» perché recava le insegne della testa di bufalo) il cui compito principale era quello di mantenere impegnati i soldati nemici con una costante e forte pressione, in modo tale che essi non potessero sguarnire le loro posizioni a favore di quelle degli uomini attestati attorno al Passo del Giogo; la sua direttrice di attacco prevedeva la marcia nella zona fra la strada Prato Castiglione e il Passo della Futa lungo il crinale dei monti Citerna e Coroncina. Occupato Montepiano il 24 e conquistati questi due previsti obiettivi, aprendo la strada verso Castiglione dei Pepoli, parte della 34.a divisione si diresse verso Bruscoli, rimanendo però stranamente troppo bassa verso il fondovalle, con il risultato di dover inutilmente attaccare dal basso verso l’alto provenendo dalla località Albagino, quando sarebbe stato molto più razionale attaccare i tedeschi, arroccati a difesa sulle posizioni di San Martino e del Monte delle Serrucce e dotati solo di armi leggere, direttamente dal Passo della Futa, utilizzando i carri armati di cui pure erano dotati. Bruscoli venne liberata dai fanti della 34.a nelle prime ore del pomeriggio del 25 settembre. Anche questa divisione americana, così come la 85.a e la 91.a, era fronteggiata dalle truppe della 4.a divisione paracadutisti, unitamente alla 334.a e 362.a divisione di fanteria.

Castiglione del Pepoli e lo spartiacque fra Setta e Reno


Un capitolo a parte merita la liberazione di Castiglione: già dal 11 settembre i tedeschi avevano distribuito volantini informando i cittadini che avrebbero dovuto evacuare il paese fra il 12 e il 17 settembre, evacuazione che però non ebbe luogo per il sopraggiungere di un contrordine. Il paese subì diversi bombardamenti da parte di aerei e dall’artiglieria ed infine il 24, dopo aver razziato ogni cosa, i tedeschi si ritirarono verso San Damiano; una compagnia di guastatori fece saltare prima sette case attigue alla strada principale, per ritardare l’avanzata alleata, e come ultima cosa anche la centrale elettrica di Santa Maria. Il paese venne occupato da alcuni partigiani male armati e rimase terra di nessuno fino al 27 settembre quando, verso il mezzogiorno, fu raggiunto da uno squadrone della 91.a divisione, poi verso le 16 dalle avanguardie della 24.a brigata inglese, facenti parte della 6.a divisione sudafricana ed infine dalle truppe sudafricane vere e proprie. La 6.a divisione sudafricana, reduce dai combattimenti di El Alamein, era passata direttamente sotto il comando della Quinta armata del gen. Clark ai primi di ottobre. Essi avevano seguito la strada Prato-Castiglione, contrastati dalla 362.a divisione; dopo aver combattuto nella zona di Prato, erano destinati ad occupare una porzione di fronte larga diversi chilometri a cavallo fra Setta e Reno. Il 30 i partigiani castiglionesi vennero disarmati ed il 2 ottobre si insediò la prima Giunta comunale. Intanto Camugnano era stato liberato il 30 settembre.

Verso il Passo della Raticosa


I tedeschi avevano a loro disposizione le difese predisposte su Monte Bastione, sovrastante la Futa, Monte Oggioli, dominante l’intera vallata di Firenzuola e Monte Canda, su cui si trovavano anche alcune batterie antiaeree. Queste tre cime, più alte di tutte quelle circostanti, davano un consistente vantaggio ai difensori, essendo oltretutto scarsamente alberate ed avendo generalmente fianchi ripidi e disagevoli. Per vincere la difesa tedesca gli Alleati decisero per un simultaneo attacco con concentramento di forze: la 34.a divisione verso Monte Bastione, la 91.a verso Monte Oggioli e la 85.a verso Monte Canda, convergendo in direzione del Passo della Raticosa. Un simile attacco non risultò sopportabile alle sempre più sguarnite truppe tedesche che ebbero come unica alternativa l’abbandono delle posizioni ed il ritiro il giorno 28 verso nuove scarne difese disposte nei paraggi di Monghidoro, ritiro effettuato con il favore del maltempo che per alcuni giorni costrinse a terra l’aviazione americana, prezioso elemento di copertura per ogni operazione terrestre alleata. Il Passo della Raticosa venne occupato dalla 91.a divisione la mattina del 29: nel corso della giornata due reggimenti si spinsero fino quasi a Ca’ del Costa; la 85.a e la 34.a conquistarono i loro obbiettivi senza incontrare resistenza, immerse in una nebbia irreale che lasciava solo qualche metro di visibilità.

Strage a Monte Sole


Intanto una formazione partigiana, la Stella Rossa comandata da «Lupo» (Mario Musolesi), forte di circa 500 nomini occupava il crinale fra Setta e Reno, da Grizzana fino a Sasso Marconi, tagliando verticalmente la debole linea di difesa, diretta continuazione di quelle poste più ad occidente e a cui abbiamo appena accennato. Con ogni probabilità i partigiani non valutarono appieno il pericolo mortale che essi rappresentavano nel cuore dello schieramento tedesco, potendo garantire con la loro presenza una linea preferenziale di passaggio diretto delle forze alleate alle spalle delle difese tedesche, con il loro conseguente possibile scardinamento. Ben chiaro era viceversa questo pericolo agli occhi dei tedeschi, i quali avevano già potuto toccare con mano durante i combattimenti di Monte Battaglia, sulla destra del Santerno, consegnato il giorno 27 settembre dai partigiani della 36.a brigata Garibaldi agli americani, le conseguenze dell’interruzione delle loro linee difensive: solamente l’eccessiva prudenza del comando americano impedi che forze alleate consistenti approfittassero del varco miracolosamente apertosi per gettarsi verso la pianura e cogliere il nemico dall’alto ed alle spalle. Quindi fatto tesoro di quelle circostanze, l’intervento delle truppe tedesche per riconquistare il controllo del crinale fra Setta e Reno fu sanguinoso e bestiale, scatenandosi parte della truppa contro gli inermi civili di queste contrade in una strage talmente efferata che nulla ha a che spartire con le cronache pur cruente della guerra. Questi delitti venivano perpetrati fra il 29 settembre ed il 2 ottobre 1944 da circa 1.500 uomini appartenenti a varie formazioni tedesche.



L’avanzata verso Monghidoro e Loiano


Gli Alleati decisero di lanciare la 85.a divisione a cavallo fra l’Idice e il Sillaro, la 91.a lungo la statale della Futa e la 34.a, in un ruolo di secondo piano, lungo il crinale fra Savena e Setta. Nel frattempo alcuni problemi logistici trovavano la loro soluzione: l’indispensabile approvvigionamento di carburante per i mezzi venne garantito dal 3 ottobre in avanti da una condotta di 10 cm di diametro che da Livorno giunse dapprima a Pontedera, poi a Sesto Fiorentino e, dai primi giorni di novembre, fino al Passo della Futa. Dopo un’accurata preparazione di artiglieria l’attacco verso le difese attorno a Monghidoro scattò alle ore 6 del 1 ottobre: alle basse nubi che sul far del mattino occupavano l’orizzonte si sostituì un caldo sole che permise dopo quasi una settimana di maltempo un’ottima osservazione all’aviazione e all’artiglieria. Le truppe tedesche della 4.a e 362.a divisione sebbene pesantemente indebolite dalle perdite, tennero il campo fino alla notte del 4 ottobre per ritirarsi sulla linea difensiva posta nei pressi di Loiano. Il giorno seguente il gen. Clark raggiunse il comando della 91.a posto a Monghidoro, liberato la mattina del 2, e si congratulò per il risultato ottenuto: 858 prigionieri ed alcune migliaia fra morti e feriti tedeschi. Essendo però il nemico sulla difensiva, era da attendersi che le sue perdite diminuissero quando si fosse ritirato su posizioni più forti. Peraltro le perdite americane dal 1 al 4 ottobre ammontavano a 1734 uomini fra morti e feriti, alle quali dovevano aggiungersi coloro i quali non erano più abili al combattimento per malattie e stress emotivi dovuti alla cruda lotta. Nel frattempo i tedeschi avevano preparato tre nuove linee di difesa in prossimità di Loiano, Livergnano e Pianoro. Questo faceva intendere come fosse loro intenzione difendersi fino all’ultimo uomo e all’ultimo proiettile, per costringere gli Alleati a una pausa invernale prima di lanciare un ulteriore assalto verso la pianura.

Loiano


Il giorno 5 la 85.a divisione attaccò lungo lo spartiacque fra Idice e Sillaro, imbattendosi presto in una forte resistenza nei pressi del Monte delle Formiche, difeso da elementi della 362.a, 65.a e 98.a divisione di fanteria. La 91.a divisione alleata mosse all’alba del 5 ottobre verso Loiano e dopo dodici minuti di bombardamento, per un totale di un migliaio di colpi, gli uomini del 2.° battaglione del 362° reggimento entrarono in paese. Le case, gravemente bombardate, vennero setacciate una ad una dai soldati americani, i quali si disposero a difesa in attesa di un possibile contrattacco tedesco, effettivamente portato nelle prime ore del pomeriggio e respinto con decisione; nei combattimenti attorno al paese venne colpito un mezzo corazzato. Un caposaldo tedesco era stato intanto predisposto su Monte Castellari; gli Alleati, nella speranza di cogliere i difensori di sorpresa, attaccarono la mattina del 7 senza preparazione di artiglieria, ma il risultato fu scadente; così si proseguì nei giorni successivi, peraltro di maltempo, con una media giornaliera di 4.500 colpi di artiglieria contro questa sola postazione.  Questa tattica ebbe effetto perché il giorno 9 una pattuglia raggiunse il Monte Castellari senza incontrare resistenza: venne così occupato questo rilievo che risultava essere il più alto fra Loiano e Livergnano. Le perdite risultarono da parte americana di circa 1.400 uomini.

Monzuno e San Benedetto Val di Sambro


Nel frattempo gli elementi del 133° e 168° reggimento della 34.a divisione, liberati Pian del Voglio, Montefredente, Madonna dei Fornelli, nel pomeriggio dcl 2 ottobre attaccarono in direzione di Monte Galletto, lo conquistarono la sera dello stesso giorno e la mattina del 4, con l’aiuto di 7 carri armati, occuparono la cima di Monte Venere. Rinforzata la posizione, con il favore delle tenebre gli attaccanti proseguirono nel loro cammino, liberando Monzuno nelle prime ore del 5 ottobre. I tedeschi si ritirarono difendendo il terreno accanitamente, tanto che gli Alleati dovettero trincerarsi per la notte in prossimità del paese. Il successivo obiettivo del 133° reggimento divenne il gruppo di alture conosciuto come Monterumici. Il 2° battaglione del 135° fanteria avanzò in supporto del 133° nelle prime ore del mattino del 8 ottobre. Durante tutto l’8 ed il 9 ottobre Monterumici fu attaccato da ovest dal 135° fanteria e da un movimento di fiancheggiamento da parte del 133°.  Lentamente i tedeschi si ritirarono, raggiungendo la mattina del 9 linee di difesa più forti che correvano da est a ovest fra le vallate del Savena e del Setta: tali difese avrebbero resistito agli attacchi americani fino alla sospensione invernale dei combattimenti, per essere conquistate, alla ripresa delle ostilita nell’aprile 1945. Intanto il 1° e 3° battaglione del 168° reggimento di fanteria della 34.a divisione si erano mosse verso San Benedetto Val di Sambro che occuparono il 4 ottobre.

Livergnano


Ora il fronte vedeva i tedeschi occupare dei contrafforti estremamente interessanti per la difesa, sia a causa dei fianchi estesamente dirupati, sia per la loro naturale disposizione su di una linea che trasversalmente tagliava le valli del Reno, del Setta, del Savena, dello Zena e dell’Idice: lo schieramento tedesco vedeva in Monte Sole, Monterumici, Livergnano e Monte delle Formiche quattro formidabili ostacoli alla marcia degli Alleati. Tuttavia alle ore 8 del 10 ottobre il 338° reggimento di fanteria della 85.a divisione si mosse verso Casa del Monte e successivamente in direzione di Monte delle Formiche, che venne conquistato nel primo pomeriggio dello stesso giorno con la cattura di 53 soldati tedeschi in prossimità della chiesa posta in vetta; l’avanzata alleata però si bloccò ben presto contro una rigida resistenza. Intanto la 91.a divisione incontrava gravi difficoltà nel procedere in direzione di Livergnano, il cui nome veniva dagli americani comicamente storpiato in liver and onions (fegato e cipolle). Gli Alleati subirono gravissime perdite, fra cui la cattura di un intero plotone: neppure l’intervento di alcuni caccia bombardieri sbloccò la situazione. La ragione di tutto ciò si fa risalire al dispiegamento della 65.a divisione di fanteria tedesca nel mezzo dello schieramento fra la 4.a divisione paracadutisti e la 362.a. Finalmente una schiarita permise la mattina del 12 un esteso bombardamento aereo e terrestre: soltanto l’artiglieria della 91.a sparò 24.000 colpi nei giorni dal 12 al 14 ottobre. Nella notte fra il 13 ed il 14 i tedeschi abbandonarono furtivamente Livergnano: contemporaneamente parte della 34.a divisione, che con un terzo delle sue forze assediava Monterumici, scivolò verso il Savena, occupando la sera del 15 ottobre nella vallata, fino alle pendici di Livergnano, le località di Anconella e Scascoli e lasciando spazio agli uomini della 1.a divisione corazzata del Cca (Combat Command A). Nel periodo dal 10 al 15 ottobre gli Alleati subirono 2.491 perdite, il che mise in allarme il loro comando in quanto per la prima volta dall’inizio della campagna d’Italia si trovarono in difficoltà, essendo a corto di truppe di riserva: tutto questo suggerì un rallentamento prima e uno stop poi alle operazioni militari di grande respiro.

Posizioni strategiche


Nella zona centrale del nostro teatro di guerra tre grandi capisaldi erano ancora tenuti dalle forze germaniche: il gen. Clark decise di attaccare prima Monte Belmonte sovrastante Pianoro con la 34.a, poi Monte Grande, la cui caduta avrebbe aperto la porta verso Castel San Pietro e la pianura Padana, ed infine Monte Adone. La 91.a divisione americana scambiò le sue posizioni con quelle della vicina 34.a: quest’ultima era ancora numericamente forte, ma era formata da veterani che già combattevano da più di due anni e che con veemenza chiedevano di essere rimpatriati: i rapporti alleati ci dicono che il loro morale non era molto alto. L’attacco venne portato alle ore 5 del 16 ottobre supportato dalle artiglierie e dai carri armati: il primo di questi venne messo fuori combattimento e bloccò il passaggio agli altri: cosi questa nuova offensiva si arenò praticamente sul nascere. Il giorno seguente l’aviazione bombardò pesantemente Monte Belmonte, facendo anche uso di un nuovo tipo di bombe incendiarie al napalm. La sera, alla luce dei bengala gli Alleati tentarono un nuovo attacco, ma furono fermati da un forte fuoco di sbarramento, subendo numerose perdite ed un successivo contrattacco tedesco. Un nuovo attacco all’alba del 18 da parte della 34.a divisione si scontrò con una forte opposizione dei difensori, il cui schieramento era stato rinforzato dall’arrivo della 29.a Panzer Division: ciò costrinse gli Alleati a fermarsi dopo aver conquistato il villaggio di Zena e la cima di Monte della Vigna. Alla sinistra della 34.a, la 91.a aveva incontrato anch’essa una forte resistenza nemica, sia lungo l’asse della statale della Futa (resistenza aggravata dalla particolare violenza degli attacchi ai convogli dei rifornimenti nella strettoia di Livergnano da parte dell’artiglieria tedesca), sia proveniente dalle difese disposte in profondità, da Monterumici a Monte Adone, a Badolo, fino a Monte Mario sovrastante Sasso Marconi. Questa forte resistenza, oltre alle perdite e al tempo inclemente consigliarono gli Alleati di effettuare un prudenziale stop alle operazioni militari, mantenendo le loro forze in uno stato di difesa aggressiva. Alla destra della 34.a divisione i soldati della 85.a compirono significativi progressi conquistando il giorno 19 ottobre Monte Fano, cinque chilometri oltre Monte delle Formiche: furono in ciò probabilmente favoriti dall’aver agito in una zona di confine fra gli schieramenti della X e XIV armata tedesca, solitamente più debole per carenza di collegamenti fra i reparti schierati fianco a fianco.

Irraggiungibile meta


Decisi ad un ulteriore sforzo per tentare di aprirsi la via verso Bologna, gli Alleati pianificarono un nuovo attacco contro Monte Grande, supportato da un imponente volume di fuoco: 8.400 colpi sparati in una sola ora contro 42 obiettivi identificati. Per incitare le truppe lo stesso gen. Clark venne al posto di comando dell’88.a divisione, promettendo al generale Kendall la sua seconda stella se i suoi uomini avessero conquistato il successo. Ed effettivamente Monte Grande cadde nonostante contrattacchi tedeschi e gli americani occuparono la vicina località di Farneto a metà del 20 ottobre. Poi il 22 diressero il loro attacco verso il vicino Monte Castellazzo e la prospiciente Collina di Ribiano, sovrastanti Castel San Pietro: la loro caduta avrebbero finalmente aperto le porte della pianura, intrappolando le forze germaniche disposte in Romagna in un abbraccio mortale.  Ma l’attacco si schiantò contro le difese tedesche rinforzate dall’entrata in linea delle forze della 90.a Panzer Division, con la cattura di molti uomini nello sfortunato tentativo di occupare il villaggio di Vedriano. Feroci contrattacchi tedeschi e piogge disastrose che in poche ore spazzarono via tre ponti nella valle del Santerno suggerirono, data la scarsità di mezzi e munizioni, di trincerarsi a difesa: Monte Castellazzo rimase vicino ma per ora non raggiungibile. Dall’inizio dell’offensiva fino al 26 ottobre le perdite alleate assommavano a 15.716 uomini, di cui ben 5.026 appartenenti alla 88.a divisione. Gli Alleati non furono in grado di finalizzare il loro sforzo prima dell’arrivo dell’inverno, cosa che viceversa avrebbe probabilmente concluso la campagna d’Italia con sei mesi di anticipo: essi erano disposti come la punta di una grande freccia rivolta verso la pianura, con al vertice la 88.a e la 85.a divisione trincerate in prossimità di Monte Castellazzo, lungo il loro fianco sinistro la 34.a sopra Pianoro, più indietro la 91.a di fronte a Monterumici.  Il fronte poi proseguiva lungo il letto del Setta fino verso Rioveggio e da qui, con la presenza delle truppe sudafricane, saliva in cresta fra Setta e Reno verso Porretta, da cui il fronte proseguiva verso le alte vette dell’Appennino.

La 6.a divisione sudafricana in movimento


Occupato Sparvo alle ore 17 del 29 settembre, i sudafricani diressero il loro attacco contro Monte Catarelto che raggiunsero, non senza valorosi sforzi, la mattina del 3 ottobre, contemporaneamente alla conquista della cresta Bucciagni. Successivamente caddero anche Monte Vigese e Monte Stanco, prossimo a Grizzana, ma un contrattacco germanico portato l’8 costrinse a lasciare la posizione e a retrocedere. Monte Stanco fu ripreso il 10 e immediatamente riperso con una susseguirsi di quattro contrattacchi tedeschi; infine fu definitivamente conquistato il 12 ottobre unitamente alla stazione di Grizzana, con un grande dispiegamento di forze. I sudafricani si spinsero fine a Montorio, rilevando gli uomini della 34.a che vi si trovavano e la mattina del 15 liberarono Veggio e Poggio sulla sinistra del Setta. Successivamente il 19 ottobre i sudafricani occuparono Tudiano e si diressero verso Monte Alcino che conquistarono il 22, poi all’alba del giorno successivo attaccarono Monte Salvaro, preso alle ore 14 e da cui si spinsero immediatamente verso Monte Termine per esservi infine bloccati da un campo minato, che ad un tentativo di bonifica effettuato il mattino successivo, risultò formato da mine tutte disinnescate. Monte Termine venne preso il 24 ottobre ed il 25 una solida testa di ponte venne installata in prossimità de La Quercia. L’assalto verso Monte Sole che appariva alla portata degli attaccanti non venne condotto perché il 31 ottobre il Comando alleato decise di bloccare ogni offensiva per un mese.  I genieri sudafricani trasformarono allora il tratto di ferrovia da Piandisetta alla Quercia in una strada (10 novembre), per migliorare le condizioni dei trasporti, particolarmente esposti ai tiri dei tedeschi. Intanto il giorno 4 novembre era stato per la prima volta introdotto l’uso della illuminazione artificiale notturna del campo di battaglia. Il tentativo verso Monte Sole fu ripreso il 9 dicembre e vide i due schieramenti contendersi aspramente il terreno palmo a palmo fino al 14, giorno in cui con un ardito contrattacco i tedeschi, al prezzo di gravi perdite anche dalla loro parte, riconquistarono la cima e con essa l’intero monte. Il 23 dicembre cadde la prima neve. Per assicurare la linea del fronte dalla presenza di spie, i sudafricani provvidero ad interdire ad ogni civile una striscia di territorio della profondità di un chilometro dalle zone di combattimento e permisero, in una fascia di profondità di un ulteriore chilometro, ad una sola persona per famiglia di rimanere per governare il bestiame. A partire dal 4 novembre furono così trasferiti a Firenze e poi a Roma, passando per Grizzana, oltre 2.200 civili, trasportati con automezzi militari in ragione di 180 persone al giorno. Anche i tedeschi avevano lo stesso problema e lo risolsero allo stesso modo, evacuando i civili: a partire dal 15 ottobre quelli di Panico, dal 15 novembre quelli di Marzabotto.

Una tregua armata


La tregua invernale, a parte blande operazioni di ricognizione, venne occupata dai due eserciti nel miglioramento dei rispettivi sistemi difensivi, con la costruzione, anche da parte alleata, di una serie di postazioni e camminamenti che richiamavano un po’ la guerra di posizione combattuta 30 anni prima dalle truppe impegnate nella I guerra mondiale. La sostanziale stabilità del fronte fu mantenuta per i mesi centrali dell’inverno fino alla metà di febbraio 1945 quando le truppe del corpo di spedizione brasiliano spostate dalla Versilia a nord di Porretta, unitamente alla 10° divisione di montagna americana «Mountain», arrivata direttamente dagli Usa e subito schierata in linea, attaccarono nella zona di Monte Belvedere e Monte Torraccia sulla sinistra del torrente Silla, a nord di Porretta. Questa operazione nota con il nome di «Encore», condotta contro le truppe del LI corpo di montagna tedesco, aveva lo scopo di assicurare il controllo delle zone circostanti la strada statale che percorre la valle del Reno in direzione di Vergato, Sasso Marconi e quindi Casalecchio e Bologna. Il controllo di questi monti avrebbe consentito l’osservazione della lontana valle del Po. L’operazione comunque si presentò particolarmente difficile a causa della neve e della aspra natura dei rilievi: Monte Belvedere dovette essere scalato la notte del 18 febbraio con una ardua manovra e non poterono essere di alcun aiuto nè l’uso degli sci, né delle «donnole», speciali veicoli cingolati leggeri, nè l’uso delle jeep. Il pomeriggio del 23 veniva conquistata la cima di Monte Torraccia e il vicino Monte Castello. Il passo successivo fu l’avanzata verso Vergato, le cui montagne circostanti, Monte Grande d’Aiano, Monte della Spe, Monte della Castellana e Monte Valbura, sarebbero state utilizzate come trampolini di lancio per l’attacco della primavera.  L’attacco lanciato il 3 marzo raggiunse i suoi obiettivi il 5, nonostante una forte resistenza offerta anche dai granatieri della 29.a Panzer Division, ultime riserve tedesche.  Temendo che l’offensiva alleata allarmasse i tedeschi al punto da scatenare una difesa pari a quella incontrata a Livergnano e Monte Adone, il comando fermò l’attacco alle prime ore del 5, dopo aver subito 549 perdite di cui 106 morti.  Nelle loro mani avevano ora una linea da Monte Belvedere fino alla statale della valle del Reno, alcuni chilometri a monte di Vergato. Una seconda breve pausa interruppe i movimenti di truppe, consentendo agli Alleati di assestarsi sulle nuove posizioni e di raccogliere le forze per l’ultimo balzo verso la pianura: ovviamente lo stesso intervallo di tempo venne occupato dai tedeschi per rinforzare le loro sempre più sguarnite difese.

L’offensiva finale alla sinistra del Reno


Alle ore 9 del mattino del 14 aprile 1945 ben 2.052 bombardieri pesanti decollati dalle basi del Sud Italia e della Corsica gettarono i loro carichi di tritolo sulle retrovie tedesche sconvolgendole completamente ed impedendo rapidi collegamenti e spostamenti di truppe. Contemporaneamente i caccia bombardieri, generalmente in formazioni di quattro, attaccarono con bombe al napalm qualsiasi postazione, mezzo, armamento fosse loro indicato come obiettivo, a supporto delle forze di terra, particolannente nel settore della 10.a divisione da montagna. Alle 9.10 anche l’artiglieria iniziò il suo compito, con un bombardamento di 35 minuti con oltre 2.000 colpi sparati per spianare l’avanzata verso Castel d’Aiano, individuato come primo obiettivo sulla strada che doveva condurre alla pianura padana ad ovest di Bologna. Per la cattura di Rocca di Roffeno fu necessario vincere la resistenza della 94.a e 334.a divisione di fanteria che, sebbene con pochi uomini, caparbiamente resistevano: in particolare un formidabile sistema di camminamenti e bunker era stato realizzato nei dintorni della zona di Prà del Bianco.  La sera del 14 anche la località di Torre Iussi era conquistata e, nonostante fosse atteso, nessun contrattacco venne portato dal nemico; anzi, durante il giorno seguente, sotto l’incalzare degli Alleati, la 94.a dovette ritirarsi con il favore delle tenebre per i campi e per strade secondarie, perdendo la quasi totalità del suo armamento pesante e trovandosi ad un passo dalla rotta. Il giorno 16 gli Alleati entrarono a Tolè e proseguirono per Monte Croce e Monte Mosca, catturando numerosi prigionieri fra cui vennero individuati elementi delle ultime riserve disponibili ai tedeschi, a testimonianza dello sforzo supremo che essi erano costretti a fare per contenere l’avanzata alleata fra i torrenti Lavino e Samoggia. Venne liberato Monte Pastore, mentre le truppe tedesche in condizioni miserevoli dopo giorni di accaniti combattimenti si trovarono a dover opporre ancora resistenza sulle nuove posizioni attorno a Monte San Michele. I brasiliani il 14 aprile si erano mossi occupando Montese e le alture sovrastanti Vergate, mentre gli americani del 27° battaglione corazzato di artiglieria da campagna entravano in paese ed occupavano dopo due ore di strenui combattimenti ciò che rimaneva della stazione.  Furono necessari ancora due giorni di combattimenti e l’intervento di tre carri armati e di un bulldozer corazzato per vincere la resistenza dei difensori. Viceversa molto deboli furono i combattimenti a Suzzano, la cui presa era la necessaria premessa per la cattura di Monte Mosca, avvenuta la mattina del 16.  La sera del 17 aprile l’81° cavalleria era attestato alcuni chilometri oltre Vergato, mentre il 6o battaglione corazzato passando lungo le falde del Monte Mosca occupava Monte d’Avigo.

Fra Reno e Setta


Il pomeriggio del 15 aprile 765 bombardieri pesanti attaccarono sia lungo la Futa che lungo la valle del Reno, altri 120 in gruppi di quattro o di otto le difese di Monte Sole, mentre altri colpivano installazioni e truppe nelle vicinanze di Sasso Marconi. Sulla direttrice di Monte Sole e Monte Abelle sulla destra, e Monte Caprara e Monte Castellino sulla sinistra, preceduti da 35.000 colpi di artiglieria (schierata sulle falde di Monte Venere e in prossimità di Montefredente), alle 22.30 del 15 aprile anche le truppe sudafricane si rimisero in movimento, con zaino leggero e razioni per un giorno.  Aggirando numerosi campi minati, poco oltre la mezzanotte la cima di Monte Sole era conquistata. Il mattino successivo, pur perdendo diversi carri a causa delle mine, i progressi furono consistenti verso Monte Abelle, che venne preso nel tardo pomeriggio del 16. Monte Caprara fu vinto con un assalto all’arma bianca alle 6,15 del 16 aprile. Il 18 le pattuglie mandate in ricognizione non incontrarono resistenza di sorta, potendo anzi contattare gli americani, che avanzavano lungo la valle del Reno, a Sperticano.



Fra Setta e Idice


Non altrettanto bene andavano le cose sul fianco destro dello schieramento. I tedeschi come abbiamo già visto concentravano le loro forze attorno a quattro capisaldi: Monte Sole, fra Setta e Reno da Grizzana a Sasso Marconi, Monterumici e Monte Adone fra Setta e Savena, ed infine una serie di colline a nord di Monte Belmonte, fra Savena e Idice a difesa di Pianoro. La caduta di uno solo di questi luoghi non avrebbe necessariamente portato al collasso l’intera struttura difensiva, per cui si imponeva un attacco su tutta la linea, anche per impedire possibili spostamenti di truppe. I tedeschi schieravano la I.a divisione paracadutisti, la 305.a e la 65.a di fanteria, 8.a divisione da montagna, queste due ultime disposte fra il Reno ed il Savena, e parte della 94.a. Il dispositivo bellico alleato vedeva la 88.a di fronte a Monterumici, la 91.a dalla strada della Futa in direzione di Monte Adone e la 34.a posizionata pronta ad attaccare Savizzano e Gorgognano oltre Monte Belmonte, fiancheggiata a destra dal Gruppo di Combattimento Legnano, composto da fanti italiani. La mattina del 16 aprile un pesante attacco aereo fu portato alle vie di comunicazione attorno a Bologna. Al cadere della notte i soldati della 88.a divisione iniziarono l’attacco verso Monte Sole e Monterumici, mentre alle ore 3 del 16 aprile anche la 91.a e la 34.a entrarono in campo verso i loro obiettivi. Molto aspra fu la difesa, in quanto i tedeschi avevano abbandonato le posizioni durante i bombardamenti subendo poche perdite. Il giorno seguente finalmente gli attacchi della 88.a contro Monterumici iniziarono a sgretolare le difese tedesche, che però continuavano a dare segni di scarso cedimento nelle zone sottoposte al pur vigoroso assalto della 91.a e 34.a divisione. Essendo però evidenti i segni di un possibile cedimento tedesco in quella zona, gli Alleati fecero scivolare la 88.a sulla sinistra di Monterumici e Monte Adone, a spalleggiare i sudafricani che avanzavano lungo la cresta fra Reno e Setta e che fecero seguire sull’altro versante, quello del Reno, dagli uomini della 85.a che erano appena rientrati da un periodo di riposo nella valle dell’Arno. Anche gli uomini della 91.a e 34.a vennero spostati verso la loro sinistra per colmare il vuoto lasciato dal movimento, come abbiamo appena detto verso sinistra, della 88.a. Gli italiani del gruppo Legnano si disposero a loro volta fra Idice e Zena fino alla strada della Futa.



La rotta tedesca


Alle ore 9.30 del 18 aprile la 10.a divisione da montagna e la 85.a rinnovarono il loro attacco: quest’ultima non incontrò praticamente resistenza avanzando fino a Pian di Venola, mentre i soldati della 10.a furono fermati prima di Mongiorgio. Un attacco portato dalla 85.a verso Monte San Michele, sovrastante Mongiorgio, provocò il collasso della difesa tedesca: la ritirata divenne una rotta e non appena questa fu palese, gli Alleati gettarono alla rincorsa del nemico in fuga tutti i mezzi corazzati che furono in grado di riunire. Fermandosi solo per essere raggiunti dai rifornimenti, venne occupata la vetta di Monte San Pietro senza incontrare resistenza. La corsa degli Alleati proseguì fino a trovare una ultima disperata difesa, con un combattimento casa per casa, a Pradalbino la mattina del 20 aprile. Il giorno 20 gli uomini della 6.a divisione sudafricana dopo aver liberato Sasso Marconi e Pontecchio Marconi occupavano Casalecchio, quelli della 88.a Riale di Zola Predosa, mentre a metà pomeriggio veniva raggiunto, scivolando fra Bazzano e Crespellano, Ponte Samoggia sulla via Emilia.



La notte fra il 20 ed il 21 aprile i soldati della 34.a divisione a bordo di carri armati, avanzando in maniera guardinga, oltrepassavano Pianoro, ridotta ad un cumulo di macerie, Rastignano, San Ruffillo e raggiungevano alle ore 8.51 le porte della città di Bologna, liberata sul far dell’alba dalle truppe polacche.






venerdì 1 marzo 2013

Curiosità Romagnole

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Il confine fra Emilia e Romagna

romagnaÈ sul Sillaro, a Castel San Pietro che passa il confine fra la Romagna propriamente detta e il bolognese. Una prova che la divisione esiste? Eccola: Esci da Bologna lungo la via Emilia e vai dalla parte di Modena. Entra da un contadino e domandagli da bere. Ti da un bicchier d'acqua. Esci da Bolo­gna lungo la stessa via Emilia e vieni verso Imola. Entra da un contadino, fagli la stessa domanda e ti darà un bicchiere di vino. In Romagna il vino non si chiama vino. Si dice e' bé, cioè il bere per antonomasia.

Il carattere dei Romagnoli secondo lo psichiatra G. Ferrerò (1893) 

Il Romagnolo ricorda, per molti tratti del suo carattere, il cittadino del Comune medioevale.
I Romagnoli sono voraci mangiatori dotati di stomaci formidabili, amanti dei pranzi succulenti e delle buone libagioni, non meno attivi nelle funzioni amorose, come testimoniano i matrimoni spesso celebrati in età molto giovanile e, non di rado, per legalizzare nozze già consumate di fatto.
Il linguaggio rozzo e triviale, modi brutali, tendenza agli scherzi grossolani, suscettibilità traducentesi nel frequente ricorso alla violenza muscolare, impulsività sono tutte espressioni di una certa primitività, tanto spontanea quanto incontrollata.
Non mancano tuttavia, le qualità francamente positive: il coraggio personale, la laboriosità, il vivo senso dell'ospitalità, il carattere franco, aperto, allegro. 


La Romagna nella Divina Commedia

Inferno canto XXVII 37 - Dante quando gli viene chiesto dal Conte Guido di Montefeltro di dargli nuove di Romagna risponde:

Romagna tua non è, e non fu mai
Senza guerra nè cuor de' suoi tiranni,
Ma palese nessuna or ven lasciai.

I signori di Romagna hanno sempre la guerra nei loro desideri; ma, al presente, non ve ne sono in atto. Nell'aprile 1300, a Castel S. Pietro, si era giurata la completa pacificazione della Romagna.


La Caveja 

cavejaCavicchio di ferro che infisso nel timone del carro agricolo impediva al giogo di scivolare all'indietro.
La Caveja ha gli anelli in ferro battuto e nella parte superiore risulta appiattita e lavorata con fregi o simboli, adornata da grosse anelle che con il movimento tintinnano.
Da questa particolarità la denominazione caveja cantarena in omaggio anche all'anima canterina della Romagna. E' universalmente riconosciuta come "simbolo" della Romagna. 




E Carr (il carro)

carroIl carro agricolo Romagnolo ha quattro grandi ruote, è dipinto con fiori, le figure di S. Antonio patrono degli animali, San Giorgio, San Giorgio che uccide il drago e in alcune località del Forlivese con l'immagine della Madonna del fuoco. Sul timone del carro vi si trova la "caveja".

Nelle zone centrali e meridionali, il carro è diverso, meno massiccio, con sole due ruote, fornito di fiancate a spalliera.
E caradoro carradore, era un artigiano che costruiva e riparava i carri e naturalmente tutti gli attrezzi agricoli.


E' Mazapégul, detto anche Mazapégur, Mazzapedar, Mazapigur 

Spiritello o folletto che si aggira nei boschi Romagnoli.
E' alto più o meno come uno gnomo, ha la faccia simpatica e furba e si caratterizza dal tipico copricapo rosso.

Spiritello maligno che si diverte a far dispettimazapegul ai contadini nelle stalle e, secondo la tradizione si innamora facilmente delle giovani donne che ogni notte visita nelle loro stanze posandosi loro sul petto per rendergli il sonno affannoso.
L'unico modo per fermarlo è quello di rubargli il berrettino rosso che è solito lasciare sul pozzo.


Sant'Antonio - 17 Gennaio 

In questo giorno il prete si recava a benedire le stalle portando un pane biscotto.
A questa giornata erano inoltre legati questi detti:

Per S. Antogne un'ora bona - riferito alla durata del giorno che continua a crescere
S. Antogne da la berba bienca sun la j ha us la fa; o sun la fà poc u j aménca - riferito alla neve (se non l'ha la fa, e se non la fa poco ci manca) 


La Zvulera - notte fra il 24 e il 25 gennaio

cipollaNella notte fra il 24 e il 25 gennaio era usanza esporre in luogo riparato ed esposto verso il tramonto 12 mezze cipolle scavate nel mezzo ed indicando in ciasuna di esse un mese dell'anno.
All'indomani mattina si osservavano le cipolle e vi si leggevano le previsioni del tempo, quelle aciutte indicavano un mese con tempo buono, quelle umide o ripiene di acqua di contro indicavano mesi piovosi o comunque tempo umido e incerto.


I giorni della merla,  29-30-31 gennaio 


Secondo una leggenda romagnola una volta la merla aveva le piume bianche e durante il mese di gennaio stava nel suo nido senza mai uscire per paura del freddo.
Verso la fine del mese vedendo apparire il sole uscì dal nido credendo che fosse arrivata la primavera.
Gennaio allora, per farle dispetto, mandò negli ultimi tre giorni del mese un freddo tanto intenso che la merla per non morire dovette introdursi in un camino fumante.
La merla si salvò, ma le sue piume d
a bianche divennero nere per il fumo del camino e rimasero di quel colore per sempre. 


La candelora - 2 febbraio 

Uno dei giorni che veniva osservato per prevedere la fine dell'inverno, un detto molto noto recita:

Per la candelora o ch'u piov, o ch'u neva da l'invern sem fora,
ma s'un piov quaranta dé dl'invern avem ancora.

Per la Candelora se piove o nevica dall'inverno siamo fuori ma se non piove abbiamo ancora quaranta giorni di inverno

La durata residua dell'inverno varia, secondo le località, da un mese fino a quaranta giorni circa. 


Lom a Mèrz (lumi a marzo), 26-27-28 febbraio e 1-2-3 marzo 

Molte sono le località dove si tramanda questa usanza che ha origini Celtiche.

Per le campagne, sulle colline, ma anche in molte piazze cittadine verso sera si accendono fuochi propiziatori per fare lume alla primavera in arrivo.
In alcune località gli ultimi tre giorni di febbraio sono anche conosciuti come "i dè dla canucéra". Secondo la tradizione si credeva che in questi giorni vi fosse un'ora sconosciuta a  tutti in cui ogni cosa riusciva male.
Nelle campagne in questi giorni i contadini se ne stavano senza far nulla per paura che andasse loro a male il futuro raccolto.


San Giuseppe - 19 marzo 

La sera precedente in tutta la campagna si accendono fuochi, si spara e si fanno botti.
Per le donne ingraziarsi il Santo vuol dire allontanare il pericolo di avere un seno piccolo, di esse si dice che il falegname San Giuseppe vi è passato con la pialla, di conseguenza "la fugaraza grosa la fa cres al teti"


Il ritorno del cuculo (aprile) 

L'inizio della buona stagione era annunciato dal canto del Cuculo (uccello migratore che sverna in Africa) , che doveva arrivare entro l'8 del mese, in caso contrario la stagione non prometteva niente di buono.

Se l'ot d'avril un sé sentì canté e choc
o ch l'é mort o ch l'é cot.

Se l'otto di aprile non si è sentito cantare il cucolo, o che è morto e che è cotto.
Inoltre se al primo canto del cuculo non si aveva almeno una moneta in tasca, l'annata si preannunciava carica di ristrettezze economiche. 


Santa Croce - 3 maggio

(Santa Cros) In questa giornata era uso mettere nei campidi grano e nelle vigne una croce in canna sulla quale veniva legato un ramoscello di ulivo, per scongiurare il pericolo della grandine.
Sempre in questa giornata si dava inizio alla tosatura delle pecore (Per Senta Crosa, pigra tosa)


San Barnaba - 11 giugno

Giornata importante per prevedere la vendemmia, secondo un detto del Forlivese se "piov par San Barnaba l'uva bianca la s'in va, se piov matena e sera us in va neca la negra"
Se piove per San Barnaba l'uva bianca se ne va, se piove mattina e sera se ne va anche la nera. 


San Giovanni - 24 giugno

Secondo una credenza probabilmente di origine Celtica, la notte di San Giovanni è possibile vedere negli incroci delle stradine di campagna le streghe che si recano al grande Sabba annuale.
La notte che precede il 24 giugno si crede che avvengano meraviglie e prodigi ed è detta "la notte delle streghe".


San Martino - 11 novembre 

In questa giornata si concludeva l'annata agricola, si chiudevano definitivamente i contratti e aveva inizio il periodo invernale.
San Martino è però ricordato anche quale protettore dei mariti traditi (San Marten dj bech), e a Sant'Arcangelo di Romagna si celebra tuttora l'antica Fiera dei Becchi, famosa in tutta la Romagna.


Santa Bibiana - 2 dicembre

Questo giorno nella credenza popolare era ritenuto importante per le previsioni del tempo nelle successive settimane dell'inverno.
Se pioveva o nevicava, si diceva che avrebbe continuato così per settimane, e viceversa se c’era il sole.

Par Sènta Bibìena iè quarenta dè e una stmèna.


Santa Lucia - 13 dicembre 

Dimenticando la riforma Gregoriana del calendario che ha portato il solstizio invernale al 22 dicembre, in tutta la Romagna si continua a dire:

Sénta Luzìa l’è e dè piò curt ch’us sia
S. Lucia è il giorno più corto che ci sia.


Inoltre la credenza popolare riteneva che nella notte di Santa Lucia gli animali acquistassero la momentanea facoltà di parlare.


La volpe 

La volp la n'ha gnit da imparê, mo la coda la s'fa taiê
La volpe non ha nulla da imparare, ma la coda si fa tagliare.


Detto popolare a monito di chi crede di essere più furbo degli altri.


La Pasquella (Epifania) 

befanaTradizione radicata specialmente nei paesi di collina e montagna. La notte dell'Epifania e la mattina del 6 gennaio gruppi di uomini e donne travestiti da Befana (i Befanotti) passano di casa in casa cantando stornelli in rima di origine Natalizia o satirici sulla vita dei paesi. Il padrone di casa è solito offrire loro vino, ciambella e dolci.