mercoledì 24 giugno 2009

L'ULTIMO ANARCHICO, di Don Francesco Fuschini


Don Francesco Fuschini, nato ad Argenta (FE) nel 1915 e deceduto a Ravenna tre anni fa, è uno straordinario, quanto unico, caso di prete-scrittore e intellettuale, che sia arrivato ad una notorietà internazionale. I suoi esordi risalgono ancora agli anni in cui era seminarista, e inviava racconti a prestigiose riviste dell'epoca come la fiorentina "Il Frontespizio" del grande Piero Bargellini. Nel 1947. ordinato sacerdote da qualche tempo, viene inviato dall'allora Arcivescovo di Ravenna nella frazione di Porto Fuori, a 5 km dalla città, con la motivazione che "è un paese pieno di anarchici e in Chiesa non ci va nessuno, a parte qualche vecchietta, così almeno lì non farai danni". Invece il buon Fuschini continua a far danni, eccome: scrive racconti per il "Resto del Carlino", diventa amico di molti anarchici del paese, con cui avrà un bellissimo rapporto stile Peppone-Don Camillo, ed alla fine degli anni 70 tutto questo materiale viene raccolto da un editore locale, il mitico Mario Lapucci (scomparso nel 1992), titolare delle "Edizioni del Girasole", con l'aiuto di Walter Della Monica, animatore del Centro di Relazioni Culturali di Ravenna. Nel 1980 questo materiale viene infine pubblicato col titolo de "L'ultimo anarchico", e stampato in una tipografia dove il sottoscritto, giovane tipografo ventunenne, si diletta a correggere le bozze di stampa, e, involontariamente, ha modo così di conoscere il mondo degli anarchici romagnoli di un tempo, un mondo molto particolare e per certi aspetti folkloristico e affascinante. Pubblico di seguito il raccontino finale, che dà il titolo alla raccolta, certo di farvi cosa gradita. Buona lettura e buon divertimento.
"Da quando il gatto ha lasciato le ossa sull'asfalto, schiacciato da un camion nel forte della sua rabbia amorosa, il barbagianni fa vita in canonica giorno e notte. Il mio vicino anarchico ci fa su un carnevale, nominandolo "prete di riserva" e "cappellano con diritto di successione". Battendo la mazza alla mia volta, gli rimando che tra parroco e cappellano gli canteremo il requiem a due voci: un colpo mancino che caccia l'uomo tra la matematica dei preti che un vecchio anarchico riesce a mangiare, dai sette in poi, fino all'ultima cifra iperbolica, anche un centinaio, se ci si mette. Di giorno il barbagianni è padrone di casa, essendo io a caccia o a pesca di anime: dopo la colazione con topini di nido che va a scovare nei cantucci della sacrestia, il suo lavoro è passeggiare. Porta a spasso una testa regale su un mucchietto di penne; talvolta se ne va lungo le navate della chiesa con eleganza proterva. La sera chiudo l'uscio, e il barbagianni sulla gruccia rimugina il mistero. Non sarà un prete, ma ha tutta l'aria di un vecchio cattolico appollaiato tra le parabole di Salomone. A stargli di fronte mette addosso paure ancestrali: fa pensare ad un profeta straccione che ha trovato un peccatore da mordere: "Vieni qui prete: dove hai messo il Vangelo? Ne hai fatto un campo di esercitazioni oratorie ad uso dei contadini. Il tuo Cristo è al tuo uscio, e bussa: ha fame, ha sete, è ignudo, perseguitato... non trova da posare il capo, mentre tu invece... eh?" "Lascia stare, barbagianni, io sono un prete che cena con due canocchie e un pò di prezzemolo; sono un prete congruato, io, e non ho poderi al sole". Il silenzio è il suo mezzo espressivo. Come il passero del Leopardi, dice tutto sulla vita e sulla morte a becco chiuso. Ha in fondo agli occhi il pozzo dei significati estremi. Gli dico: "Se passa all'uscio un'anima in Grazia di Dio, fammi un verso". E lui magari lo fa quando passa l'anarchico. Invece quando la natura nei temporali cova lungamente l'uovo nero della morte gemendo con tuoni di volo leggero, il barbagianni è solo voce: sibila, sgrigliola, stride: suoni graffianti e franti fanno grappolo. Fa gola anche a me, se capita che la natura metta in giro le sue doglianze durante la notte. Mi metto supino nel letto e faccio memoria locale, come dice Sant'Ignazio di Loyola: ecco, mortuus sum; e via quei fiori dal catafalco che da qui si sentono putire come una menzogna. Ogni volta che faccio questo gioco della morte, mi viene in mente Lazzaro che dal buio varco passò due volte. Solo mi riesce arduo rifare il momento spaccato in due tra il prima e il dopo... la lunga mano della fede abbassa il lume su questo vortice di vuoto esistenziale. Dalla morte-ombra guardo con interesse il mio funerale. Attorno al carro funebre s'azzuffano le voci delle oranti governate dalla Beata. Dietro quelle voci viaggiano pensieri interessati e vani; pollai, lucidatrici, amori spezzati; è incredibile come un funerale dia ala a tutto il sottosuolo umano. Le consorelle dell'Addolorata mettono in mostra i rilievi naturali stringendo le fasce di seta viola; vengono i contadini ed è tutto un discorrere di trattori e anticrittogamici. Baragnòcul non ha posto fermo: fa la spola tra la coda e la testa del corteo... insomma, la morte, come al solito, eccita un acuto senso della vita. L'anarchico lo vedo distaccato e solo: a causa delle gambe che lo servono malvolentieri, ma più per l'orrore di doversi contaminare coi credenti. Per tagliare il sospetto alla radice, fuma a pipa calda e scaracchia da oriente ad occidente. E via con le litanìe di rito: "Ste vigliacc, sta canaja, st'assassè!" (Prete vigliacco, prete canaglia, prete assassino), che poi è tutta roba che va al prete, perchè a me come uomo l'anarchico vuole un bene forte e romagnolo. E' insomma l'ultimo degli anarchici ortodossi. La domenica faccio spesa dal macellaio: tre etti di manzo per me e un etto di fegato per il barbagianni. Il negozio è pieno è l'anarchico ripicchia il martello sulla magra porzione del "cappellano". E' la sua buona briciola domenicale, la sua messa anarchica, e mi scongiura con lo sguardo di non guastargliela: io che avrò per me il Paradiso non devo rubare l'effimero trionfo a lui che non avrà altro. "Sì, sì, anarchico, te ne accorgerai... litigheremo insieme per tutta l'eternità. Questo sarà il mio ultimo scherzo da prete!".

venerdì 12 giugno 2009

Cala il sipario sugli "artisti dimenticati"

Dopo 17 anni di attività il Circolo degli artisti di Faenza chiude i battenti. Le sue due grandi sale coi mattoni rossi e le travi a vista sono state attraversate da nomi altisonanti della cultura mondiale. Impossibile stilare una lista di tutti, sarebbe troppo lungo e si dimenticherebbe sicuramente qualcuno. L'unica cosa certa è che Faenza non avrà più questo piccolo spazio nascosto in un vicolo a lato di via Torricelli, dove si svolgevano mostre, dibattiti e anche concerti jazz ad altissimo livello. Il tutto nacque nel 1992 da un'idea di Lamberto Fabbri, grande appassionato d'arte che, insieme ad un gruppo di amici individuò in questo antico magazzini della nobile casata faentina Zauli Naldi il luogo ideale per costituire un cenacolo culturale ed artistico. E l'idea funzionò fino al punto di inanellare in diciassette anni oltre 150 mostre, molte delle quali di rilievo internazionale. Era facile sedersi a tavola la sera e bere un bicchiere di vino rosso insieme al jazzista Stefano Bollani che suonava il pianoforte per oltre due ore a puro titolo di amicizia con Fabbri. Un altro jazzista di casa era per esempio Enrico Rava. Impossibile non menzionare anche la presenza del grande Pablo Echaurren, amico personale di Pralina. Il Circolo pubblicava testi inediti dei maggiori poeti italiani, tra i quali Luzi e Zanzotto. Per questa attività ha vinto vari premi, tra i quali il Camaiore, in cui per la prima volta un piccolo editore vinse il Premio della Critica con i "Cinque canti per un solstizio d'inverno" di Giuseppe Conte e lo Speciale della giuria con "Gli Eldoradi Quotidiani ed altre poesie" di Giorgio Celli. Ma il Circolo voleva dire anche gastronomia, con la presenza tra i fornelli anche di rinomati cuochi "Stella Michelin". Alla conduzione di Fabbri successe poi un gruppo di giovani e motivatissimi artisti locali, ma il problema da risolvere stavolta è stato insormontabile: la scadenza del contratto d'affitto. Da un'iniziale richiesta di poche migliaia di euro all'anno ci si è trovati di fronte ad un rinnovo ben più oneroso, non certo sopportabile con i chiari di luna attuali. Si è quindi arrivati al triste epilogo. Incerto, ora, il destino di questo spazio. Vox populi vuole che al suo posto sia realizzato l'ennesimo ed anonimo ristorante.

venerdì 5 giugno 2009

Festival delle Culture a Ravenna

Termina domenica sera a Ravenna la seconda edizione del Festival delle Culture. Un Festival che ha come obiettivo quello di portare alla luce tutte le variegate culture ormai da tempo insediatesi in Romagna. Islamici, copti, ortodossi, e, etnicamente parlando, cittadini asiatici, africani e americani del nord e latini, che già da decenni convivono e prosperano nella nostra terra. Moltissimi i concerti e i dibattiti in programma durante tutta questa settimana, ma, al di là della fredda cronaca degli eventi, pur interessati, mi è sembrato giusto dare voce al Presidente del Festival, lo scrittore algerino TAHAR LAMRI, mio coetaneo e amico personale, che risiede a Ravenna da un quarto di secolo.
COME SEI RIUSCITO A COINVOLGERE TANTI SOGGETTI COSI' DIVERSI IN UN PROGETTO COSI' AMBIZIOSO?
L'idea principale è quella di far confluire le culture cittadine. Il festival nasce dal basso, da una cultura orizzontale e popolare, e volendo unire generazioni e tradizioni spesso all'opposto. Si è passati, ad esempio, dal concerto di oggi della banda comunale ad esibizioni di giovani rapper e ad un autore come Gregor Ferretti. Il Festival vuole testimoniare come gli stranieri siano anche grandi portatori di cultura e siano estremamente generosi verso la città che li ospita.
NON C'E' IL RISCHIO INVECE DI SOTTOLINEARE LE DIFFERENZE PIUTTOSTO CHE LE ASSONANZE?
Per evitare questo si è per l'appunto costruito un programma che prevede molte contaminazioni per contribuire alla conoscenza reciproca sopratutto fra stranieri stessi. In nessuna altra realtà italiana vi è una capacità simile di lavoro in rete delle nostre associazioni. Lo scopo del Festival è anche e sopratutto quello di fungere da catalizzatore e quindi evitare derive pericolose. Ravenna è ormai una città multiculturale oltre che multirazziale.
TI PREOCCUPA IL CLIMA DI SCONTRO CHE STA SORGENDO IN ITALIA INTORNO AI TEMI DELL'IMMIGRAZIONE?
Io non mi preoccupo del momento attuale... dico solo che dobbiamo fare le cose e basta. Il mio Paese, ad esempio, è stato liberato da sei persone che hanno combattuto contro tutto e tutti ed alla fine hanno vinto.
TU ORMAI SEI A RAVENNA DA UN QUARTO DI SECOLO (Tahar è stato sposato ad una ravennate da cui poi si è separato). TI SENTI ANCORA STRANIERO?
In verità non mi sono mai sentito straniero. Io sono una sintesi, una specie di somma d'identità. Le definizioni generali funzionano per i gruppi e per chi immagina una società statica. Ma nella realtà i singoli individui ogni giorno devono inventarsi e far crescere una propria specifica personalità.
Gran finale domenica sera, quindi, presso i Magazzini Almagià, nella zona del porto, che un secolo fa erano degli enormi depositi per lo stoccaggio dello zolfo, e oggi sono uno stupendo contenitore di realtà artistiche, vero fiore all'occhiello per la città di Ravenna e per tutta la Romagna.

giovedì 4 giugno 2009

Che bei ricordi...

Leggo questo post (* il nostro sulle balere romagnole n.d.r.) e vengo travolta da un mare di ricordi. Io a Marina di Ravenna ci sono andata a trascorrere le vancanze (due mesi per volta! si partiva il 29 giugno e si rimaneva tutto luglio e tutto agosto...) da quando avevo pochi mesi fino ai 13 anni...poi ci ho fatto un paio di capatine nostalgiche da "adulta".
Il bagno Nello, la Grotta Verde (da fuori sentii tutta gasata Gianni Pettenati con la sua "Bandiera Gialla" e i Ricchi e Poveri ^_^) , Le Ruote, la gelateria Mariuccia, Il cinema in fondo alla via di casa dove non potei andare a vedere coi miei fratelli maggiori (invidiaa) Senta Berger in "Quando le donne avevano la coda" perché non avevo 14 anni, ma dove non persi tanti altri films, tra cui quelli optical come "La zanzara" con Rita Pavone e Giancarlo Giannini), il mercato al mercoledì che si svolgeva proprio in una piazza accanto alla via dove sorgeva la casetta che affittavamo (a fianco delle scuole elementari), il "frizzital" che era un gelato che potevi prendere proprio al giorno del mercato, il fritto di pesce della signora Giulia, il dolce tuttoburro che sempre lei preparava per il compleanno di mia sorella, la messa la domenica sera alla chiesa che allora mi pareva così moderna e vasta, le gite al Molo (e di là c'era Marina Romea), gli odori del porto, il pesce che mangiavi al ristorante Sole (se non erro si chiamava così), gli avvistamenti dei vip che stavano al Park Hotel (Patty Pravo con la sua maga, la Vanoni, per esempio), i bomboloni freschi la mattina, le frittelle della Signora Rosa (mamma scalza e col foulard alla pirata in testa del bagnino Nello), le partite di pallavolo dietro le cabine e accanto alle docce, le cabine di legno, quelle di cemento come la nostra, la numero 31, sempre piena di sabbia e di cose di ogni tipo: costumi, pinne, boccagli, teli, palette, biglie coi ciclisti, materassino di tela rosso e blu, il pontile, Lo sci nautico dei miei fratelli maggiori e della zia Roberta, le gite in motoscafo all'isola d'acciaio con quel gran figo dell'Urbano (fratello di Nello), le passegate in pineta (e le storie su Anita Garibaldi da ascoltare con gli occhi sgranati, i pinoli da raccogliere da spaccare e assaporare), gli zampironi, il ddt spruzzato da una specie di Ape Piaggio, gli arrivi di mio papà al venerdì sera o al sabato mattina, la colonia che si trovava quasi alla fine del paese, verso il lido di Savio, che mi metteva così tanta tristezza (mio padre diceva che alcuni bambini nostri compaesani stavano lì e una volta andò a trovare qualcuno di loro). E come si chiamava quel locale che stava in pineta, circa davanti all'hotel Internazionale, tra la via delle Nazioni e il "mio" tratto di mare? Jolly? Non ricordo...
Quanto mi piaceva il tratto di strada da fare da casa alla spiaggia, sotto il sole cocente delle due del pomeriggio, sola e tranquilla. E ritrovare in spiaggia, ogni giorno, ogni anno, quei soliti volti, quelle persone che poi lungo l'anno non sentivi più, tranne qualche scambio di cartolina, o qualche lettera...
Ricordo A. Gambaiani, che ancora credo viva là.
E poi Vincenzo L., mio bellissimo primo amorino coi capelli neri neri e gli occhi verdissimi, che mi dava la mano uscendo dal mare al bagno di mezzanotte, ma aveva 17 anni e io 13...rimase una simpatia incubata..che avrebbe potuto sbocciare forse negli anni a venire, se non fosse stato che i miei smisero di andare lì proprio quell'anno.
E Sante, con la sua simpatia e col suo "prototipo", motorino tutto mezzo scassato e rielaborato da lui. Potrei fare molti altri nomi, mi scorrono davanti tutti i visi, le situazioni, le atmosfere...
Sono ricordi che mi legano moltissimo ai miei fratelli, che li hanno condivisi con me, pur avendo ognuno di loro -ne sono certa- la propria "fetta" personale di ricordi e di persone speciali.