sabato 24 dicembre 2011

La corte del capofreddo, Sparagnì e altre storie di Alberta Tedioli

Diamo volentieri la notizia della recente presentazione del libro "Le corte del capofreddo" avvenuta a Faenza




Faenza. “Le corte del capofreddo” (Giraldi editore) è il titolo del libro di Alberta Tedioli presentato, con la presenza dell'autrice, sabato 29 ottobre 2011, ore 17.30, alla Bottega Bertaccini (corso Garibaldi 4). Introduzione di Loretta Scarazzati (in collaborazione con l’associazione ParoleCorolle).
Non so se esista un Campionato mondiale del Racconto. Sicuramente nel Guinness dei primati è entrata una micro-storia dello scrittore guatemalteco Augusto Monterroso. La sua fama è dovuta al più breve racconto della letteratura universale: “Il dinosauro”. “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”.
Questo testo (amato da Italo Calvino tanto da citarlo nelle sue “Lezioni Americane”) ha dato una notorietà internazionale al suo autore. Ciò non lo inorgogliva, semplicemente ne rideva, come di tutte le cose della vita, anche quelle tragiche.
Anche Alberta Tedioli ride, in queste microstorie che compongono il suo nuovo libro “Le corte del capofreddo”. Ride delle cose contraddittorie, paradossali e tragiche della vita. A volte ci regala un sorriso amaro, o semplicemente ci fa pensare e riflettere. Ne parla, ne scrive, in figure anche brevissime, tre righe, sette righe, a volte anche una sola riga basta per descrivere o tratteggiare le nostre piccolezze o le piccole crudeltà del vivere quotidiano, sempre più assurdo e incomprensibile. Sono racconti di fantasia, certo, ma talmente realistici da sembrare veri.
Se mai ci sarà un Campionato mondiale del Racconto speriamo che Alberta vi voglia partecipare.




Un altro gustoso libro dell'autrice modiglianese, uscito nel 2009

Comicità e mistero in un romanzo avvincente, dedicato ai contadini di collina "dimenticati dalla storia" - con un glossario di parole tipicamente modiglianesi

Spendere e comprare? Un delitto, secondo Sparagnì, il modiglianese avaro fino alla comicità che imperversa nelle pagine di questo libro: una sorta di Arpagone romagnolo, che vive con la moglie Clarina al podere Gramigna, senza concedersi (e concederle) nulla di superfluo. Nemmeno la nascita di Cesarino scalfisce il suo stile di vita grottesco e spartano, il suo attaccamento morboso agli oggetti, che va a raccattare anche nei cassonetti per poi riporli ordinatamente in cantina.
Non c’è amore in Sparagnì: solo cinismo, avarizia e il lucido progetto di accumulare soldi... per non spenderli. Ma quando il piccolo Cesarino, alla vigilia del primo giorno di scuola, si perde nel bosco, la storia si tinge improvvisamente di mistero...




ven 15 ottobre 2010

"SPARAGNI', " L'AVARO DI ROMAGNA" L'OPERA PRIMA DI ALBERTA TEDIOLI -

Recensione di Claudio Alessandri

Non è facile che qualche avvenimento giunga a meravigliarci, avvezzi come siamo a scoprire in ogni luogo ed in ogni individuo la “scintilla” talentuosa di un inaspettato ed insospettabile scrittore.
Eppure ciò è avvenuto nel corso di una delle nostre soventi visite a Imola dove vive e lavora da qualche anno una mia figlia che mi ha fatto dono di un dolcissimo nipote. Quella cittadina in provincia di Bologna, ma con un disperato desiderio d’appartenere alla Romagna, ospita nei mesi invernali e primaverili uno dei classici mercatini dove si vendono dalle cianfrusaglie a mobili più o meno antichi, dai busti bronzei di malinconici Mussolini a colbacchi (autentici?) della fu armata rossa e non è raro trovare qualche bella ceramica peraltro carissima.
Quello che mi ha sempre attirato di questi mercatini è il banco dei libri usati gestito da una signora dall’aspetto mite e dal colloquiare gentile e pacato. Ci conosciamo da qualche anno e, appresa la mia passione per i libri, non dico rari, ma certamente non comuni, in più riprese mi ha scovato qualche “chicca” letteraria, fra le tante un'edizione economica della Storia delle Crociate scritta da Michaud ed illustrata da cento splendide incisioni del Dorè.
La sorpresa ci è giunta proprio da quella gentile ed ancora piacente romagnola. Non si tratta di una rarità antica, ma di una sorpresa nuovissima, un romanzo scritto e pubblicato da Alberta Tedioli, una “venditrice di sogni” del paesino di Modigliana (FO).
L'ho acquistato, vinto da grande curiosità, ed ho iniziato a leggerlo immediatamente. Ho smesso solamente quando sono giunto al termine e per qualche tempo sono rimasto con quel libro in mano fissando il vuoto, riflettendo sul contenuto di quel romanzo che si intitola: “Sparagnì – L’avaro di Romagna” – (il gomito nel cuore), edito dalla casa editrice Tempo al libro Faenza (Ra).
Nel leggere questo romanzo dalla narrazione piana, scorrevole, scritto in un italiano piacevolmente corretto, interrotto, alle volte, da alcune espressioni dialettali romagnole ad impreziosire un racconto che “profuma” di campagna, risentiamo la nostalgia dei luoghi rimasti nel nostro ricordo, magari resi ancor più reali nei racconti di nostra madre, romagnola verace.
Nonostante Alberta Tedioli narri di una vita legata ancora, pur con l’intervento del progresso, a tradizioni di una civiltà antica che reca in se i germi del “nuovo” reclusi nel “vecchio”, si è portati, se non a giustificare, almeno a comprendere degli atteggiamenti altrimenti deprecabili. Quello che ci viene descritto è un mondo in bilico tra un dominio patriarcale ed il desiderio femminile di affrancarsi da una condizione di schiavitù, che adesso mal sopporta, scorgendo, anche se da lontano, i bagliori delle grandi città piene di negozi eleganti e di una umanità diversa, differente dal loro parlare, vestirsi e addirittura camminare. Se poi consideriamo che la Clarina ha sposato Cencino, come lo chiama affettuosamente la moglie, un contadino tanto tirchio da essere chiamato “Sparagnì”, il quadro è bello che dipinto. Sparagnì non è solamente tirchio in modo feroce nello spendere i suoi soldi, ma financo a far dire al suo prossimo: “va nel cuore con il gomito”. Non si tratta più di vil denaro, ma di sentimenti. Quell’uomo non è avaro solo nel “mettere la mano in tasca”, ma lo è anche nel cuore, cioè è privo di sentimenti, per meglio dire, rifiuta persino di concedere il suo affetto anche alle persone a lui più vicine: la moglie e il figlio, Cesarino.
Un figlio concepito da Sparagnì quasi inconsapevolmente e mal sopportato, perché “crescere un figlio costa”. Figurarsi, dunque, quando Clarina gli annuncia di attendere un altro figlio. Sparagnì accoglie quella notizia alla stregua di una spaventosa disgrazia, al punto da suggerire alla consorte l’aborto, che Clarina respinge con sdegno.
Da quel momento Sparagnì, contadino abilissimo, ma privo della più elementare umanità, dà il via ad una guerra personale contro sua moglie, un'ostilità crudele che non conosce ragionevolezza. Per Clarina la tragedia si trasforma in buia disperazione, non trovando comprensione, né da sua madre (“vedrai passerà”), né dal prete della sua parrocchia, che minimizza, teorizza, fa minuta filosofia, digiuno com'è delle più elementari conoscenze di vita coniugale, ma, in compenso, ferratissimo sugli intangibili principi religiosi. Per Clarina si apre un baratro incolmabile di dolorosa tristezza, nel constatare di non essere compresa. Da nessuno le giungerà soccorso.
Probabilmente, Alberta Tedioli, ad un certo punto del racconto, cede alla tentazione della “lotta di classe”, inserendo un personaggio femminile: una “gran signora” che abita a Milano, ma che è nata a Modigliana. Questa, prima insidia il marito, poi, subdolamente, lo coinvolge in un'avventura commerciale che, per l’ignaro ed illuso Sparagnì, segnerà la fine dei suoi sogni di amorosa conquista. Quello che significherà per lui la “disperazione”, però, sarà la perdita di tutti i soldi ragranellati con estrema avarizia, unica ragione ed amore della sua vita.
La fine di tutto sarà segnata dalla catarsi, una conclusione nella quale la tragedia avrà il sopravvento su ogni ragionevole speranza di riscatto. Raggiunto il limite oltre il quale il dolore non può giungere, compresa la morte, all’inizio misteriosa, dell’adorato Cesarino, per assurdo, nella vita di Clarina ritorna la pace, una tranquillità che segna la nascita a nuova vita, straordinaria, inconscia filosofia contadina, nella quale anche il dolore più atroce fa parte del naturale alternarsi delle stagioni. Non ottusa indifferenza, ma sublimazione del vero valore della vita, nell’alternarsi altalenante che conduce, alla fine, ad un equilibrio perfetto: il dolore e la felicità si pareggiano, si compensano.
Intendiamoci, forse il racconto si prolunga un po’ troppo, ma, in quanto “opera prima”, merita tutta l’attenzione in attesa di conferme che verranno, speriamo, in un prossimo futuro.




Alberta Tedioli è nata il 12 dicembre del 1950 a Modigliana, dove vive tuttora. Ha fatto l’operaia, l’impiegata statale, la mamma di tre figli e tante altre cose. Si è diplomata mentre faceva anche l’operaia, nei lontani anni Settanta. Il suo lavoro preferito, quello che avrebbe voluto fare per tutta la vita, l’ha scoperto dopo i 50 anni: vendere libri usati o antichi ai mercatini. Ha pubblicato vari articoli su periodici locali e ogni anno scrive per l’almanacco di Modigliana il ritratto di un personaggio originale scomparso. Ha curato il libro di detti romagnoli intitolato Amo ció; ha inoltre pubblicato un articolo di satira su M, l’allegato all’Unità diretto da Staino. Questo è il suo primo romanzo, che ha come protagonisti i contadini di collina, gli ultimi, i dimenticati dalla storia.

Happy hour, patàca e vu cumprà

dal nostro archivio, un'altra interessante recensione scritta nel 2008 sui cambiamenti della Romagna.

Happy Hour, Patàca & Vu Cumprà

Che cos'è oggi la Romagna? Esiste ancora? E dove sta andando? Una possibile risposta viene tentata da questa prima prova narrativa di Nello Agusani, ravennate, insegnante con all'attivo vari testi scolastici con la Mondadori. Nella sua scheda biografica leggiamo che coltiva vari interessi culturali e ha partecipato ad alcuni concorsi letterari. L'editore Giraldi di Bologna, editore giovane ma già molto attivo e presente alle Fiere del Libro in Italia ed all'estero, ha quindi raccolto questi dodici racconti in un libro a cui ha "preteso" vi fosse incluso nel titolo la parola "patàca", che in romagnolo definisce uno sbruffone inconcludente e vanesìo. In effetti questi racconti solo casualmente sono ambientati a Ravenna e dintorni, perchè le situazioni ivi narrate, come il fatto vero di cronaca di un rapinatore bosniaco inseguito e ferito dai carabinieri che preferisce suicidarsi pur di non farsi catturare, potevano essere accadute in qualsiasi altro posto. Il libro descrive un'angolo di terra finora troppo idealizzato, elevato ad un rango di emblema ormai scolorito, uno stereotipo che fatica moltissimo il fatto di non essere più capitale di un'impero, e non più luogo di transito e di soggiorno di personaggi quali Dante Alighieri, Niccolò Machiavelli, Leonardo Da Vinci, George Byron, Giuseppe Garibaldi, Oscar Wilde, Giacomo Leopardi, e così via. La terra degli "uomini rossi" di beltramelliana memoria era stata in grado di produrre grandi passioni politiche e parimenti grandi personalità. Qui sono nate le prime cooperative bracciantili ed edili d'Italia, ad opera di operai socialisti, repubblicani e anarchici. Il primo deputato socialista del Regno d'Italia fu un'imolese, Andrea Costa nel 1882, di provenienza anarchica. Grandi anche le personalità espresse dal mondo libertario: Leo Longanesi, Amilcare Borghi, Pio Turroni; dal sindacalismo, che oltre ad un gigante come il già nominato Borghi espresse anche un socialista come Nullo Baldini; dal mondo repubblicano, con Saffi e Valzanìa; dal mondo cattolico, con Benigno Zaccagnini. Un capitolo a parte è Benito Mussolini, che da socialista rivoluzionario fondò poi il fascismo, copiando anche il colore "sociale", il nero, dagli anarchici, di cui fu sempre un segreto estimatore. E mi scuso per i tanti nomi che per ragioni di memoria e di spazio non riesco a citare. Insomma per vari decenni la Romagna è stato uno dei laboratori più fecondi a livello internazionale di idee politiche, di esperimenti a vari livelli, di confronti, di scontri e di incontri. Sì, ma oggi? Purtroppo il popolo che fa capolino da questi racconti appare stranito, abbacinato dalle luci del divertimentificio che hanno sostituito del tutto le lampade votive dei vari ideali. Ora i bar o i pub si chiamano "Hemingway", "Bukowski", "Progresso", "Doveri e Diritti", "Scintilla", senza che nessuno si ponga la minima domanda da dove scaturiscano questi nomi. Le passioni si sono spente ormai del tutto. E' un quadro desolante quello che ci propone Agusani, ma molto più efficace e immediato di quello che ci possono fornire miriadi di dotte quanto noiose conferenze. I valori che vi troviamo sono omogeneizzati all'intero Occidente. Lo scenario è quello di famiglie che si disgregano, di piaceri effimeri ricercati ossessivamente, di amori confusi col sesso, di schiere di giovani annoiati senza progetti. Un quadro che già il grande Michelangelo Antonioni, ferrarese, delineò in uno dei suoi film più emblematici: "Deserto Rosso", del 1964, girato proprio a Ravenna città e nella sua zona industriale. E che anche un grande poeta ravennate, Eugenio Vitali, descrisse in modo lirico in una raccolta del 1981: "Ravenna, la durata di un trapasso", che però raccoglieva poesie a partire dai primi anni sessanta. L'autore, comunque, usa una scrittura scevra dalla retorica e dalla nostalgìa: descrive e basta. Molto belle e luminose le descrizioni dei panorami marini e delle valli di Comacchio, un pò didascalici invece alcuni dialoghi che ho trovato quà e là nei vari racconti, difetto peraltro comprensibile visto il mestiere con cui l'autore deve fare i conti giorno dopo giorno. Complessivamente una "prima" molto più che dignitosa, impreziosita anche dai disegni di Faustino Fori (la copertina è opera sua), con un passato trentennale come poeta ed ora approdato felicemente alla pittura.

phederpher

lunedì 19 dicembre 2011

Attilio Sassi detto il bestione

Nel 2009 per Zero in Condotta usciva una interessante biografia di un anarchico romagnolo.


Esce per i tipi di Zero in Condotta l’autobiografia di Attilio Sassi, militante anarchico e sindacalista dell'USI (Unione Sindacale Italiana), il sindacato anarchico italiano. Interessantissima questa biografia, vuoi per il personaggio, vuoi per il contesto storico e sociale in cui agì. Segue una parte della prefazione di uno dei tre curatori, Giorgio Sacchetti.

Era il novembre 2005 quando ebbi modo di compulsare, per la prima volta, il testo di questa autobiografia, voce inaspettata dal “nostro” Novecento, testimonianza a futura memoria affidata in gelosa custodia perché fosse poi lasciata “nelle mani di compagni sicuri”. La copia fotostatica del documento, ora a disposizione del pubblico presso il Centro Studi Libertari / Archivio G. Pinelli di Milano, mi era stata consegnata direttamente dalla detentrice originaria Giovanna Gervasio Carbonaro, figlia dell’indimenticato organizzatore Gaetano Gervasio (sodale di Sassi). In tutto questo c’era stata la complicità di Paolo Finzi, compagno e amico, che mi aveva individuato come il destinatario “naturale” di quelle carte. Ed è stata per me una vera emozione leggere quelle pagine scritte in una grafia che ormai avevo imparato a riconoscere.

È una narrazione autobiografica dai toni fieri, ma anche leggeri ed ironici, che si dipana fra Emilia Romagna, Brasile e Valdarno. Nel racconto di quelle vicende sociali collettive davvero “epiche”, intrecciate con altre a dimensione “microstorica”, hanno in un certo qual modo cortocircuitato le mie identità. È certamente un fatto in sé risibile, ma fra i cinquemila minatori valdarnesi che con Sassi avevano conquistato temporaneamente, nel 1919, la giornata di sei ore e mezza “a bocca di galleria”, c’erano degli appartenenti alla mia comunità familiare, e molti loro amici che, ovviamente, non ho mai conosciuto, ma di cui sentivo parlare da bambino. Ho potuto così ritrovare un’altra traccia importante di quelle storie che, ossessivamente, non ho mai cessato di inseguire, anche nella mia attività di ricercatore.

Inoltre, incontrando Giovanna, ho potuto finalmente conoscere di persona, non solo la redattrice di quel foglio battagliero, “Gioventù Anarchica”, che fu la voce bella ed effimera di una generazione di coraggiosi negli anni del dopoguerra, ma anche la pedagogista libertaria attiva e oggi stimata nella “sua” Firenze. Nella casa in collina di Bagno a Ripoli i ricordi risalgono a prima dell’alluvione del ’66. Un pacchettino con alcuni volumi mi viene offerto in dono prima di congedarci. Sono “libri di Antonio”, il suo compagno di vita scomparso da alcuni anni, docente universitario e sociologo dalla vasta produzione scientifica, anche lui con un background anarchico.

Attilio Sassi



Che film la vita! E quante strade e quante storie, distanti, sconosciute oppure solo immaginate, finiscono poi per incontrarsi ed alimentare il presente!

Il volume che qui abbiamo messo insieme è frutto di un intenso lavoro collettivo, dove Bob (Zani) e Tom (Marabini) hanno avuto un ruolo centrale, sotto tutti i punti di vista. Ma è anche la risultante di una intensa attività di ricerca in progress che viene da molto lontano. Credo che queste pagine (cui si aggiunge un ricco CD), per la loro articolazione complessiva plurale e per la connessione dei generi, possano validamente costituire sul piano metodologico – modestia a parte – anche un possibile modello euristico, utile magari per la didattica. Lo so, i manuali di storiografia ci invitano ad un uso prudente e integrato di questo tipo di fonti. Ed è quello che abbiamo fatto, affiancando all’autobiografia i saggi storici in forma tradizionale e le fonti di letteratura insieme ad altri strumenti di conoscenza: fonti orali, interviste, verbali di riunione, carte di famiglia e documenti da varie tipologie di archivi pubblici e privati.

Come tutte le visioni autobiografiche neppure questa è solo rivolta al passato. Scritta a Roma, presumibilmente alla fine degli anni Quaranta, essa, manifestando in modo intrinseco una dimensione progettuale dell’avvenire, pare piuttosto evocare il cambiamento. Così la narrazione della propria vita è essa stessa laboratorio di creazione per l’attribuzione di senso e di significati. La memoria soggettiva intrecciata con quella collettiva funziona da vaglio degli eventi selezionati, producendo, da una parte oblio, dall’altra trasformazione dei ricordi, influenzati questi anche dalle storie di vita altrui. La sfera emozionale, dove i ricordi possono essere, inconsciamente, anche “riadattati” all’economia del racconto, assume sempre una valenza primaria. La rivisitazione eventualmente “creativa” dell’agito individuale niente potrebbe però togliere a quella attendibilità che la forma autobiografica possiede in sé quale strumento cognitivo della psicologia del narrante. Già in sé l’atto del raccontare crea e ricerca legami, insieme alle connessioni perdute. Il soggetto si trova immerso in un flusso diacronico, con il continuo scorrere tra passato, presente e futuro, dimensioni che caratterizzano le fasi esistenziali di ogni individuo. È una sorta di gioco dialettico / conflittuale che ogni soggetto sperimenta con l’attraversamento sincronico di tempi eterogenei e molteplici. L’oralità vive di suggestioni, suscita emozioni. La memoria si dipana attraverso una trama che si racconta fin nelle intenzioni recondite delle azioni dei protagonisti, nei significati sequenziali delle storie. Il modello narrativo presenta valenze metaforiche, mitiche e simboliche. Il metodo autobiografico promuove desideri di conoscenza e trame di storie capaci di educare e stupire al tempo stesso.

L’uso in storiografia, sempre meno occasionale, di questo tipo di fonti, un tempo aborrite e successivamente ammesse con riserva, ci induce a ritenere forse superata la lunga fase di “paura della storia contemporanea” che ha caratterizzato gli ultimi decenni.

“È l'interpretazione – scriveva Marcello Flores – cioè la scelta selettiva del passato e delle domande da porgli, il necessario intreccio tra la loro selezione e spiegazione, a essere resa difficile nella storia del Novecento”.



Attilio Sassi (a sinistra)


A margine di questa bella presentazione, aggiungo che dopo la visione della fiction "Pane e libertà", andata in onda recentemente e basata sulla vita del grande sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio, occorre dire appunto che Attlio Sassi era un suo grande amico, e che Di Vittorio pianse a lungo sulla sua bara nel 1957, a Roma. Sassi era nato nel 1876, lo stesso anno del mio nonno paterno, a Castelguelfo, presso Imola. Romagnolo purosangue, amava il ballo, il vino e le belle donne. Era anche un discreto poeta in dialetto romagnolo di Imola. Nel bel volume, curato oltre che da Sacchetti anche dai cari amici e compagni libertari Bob e Marabbo, ne sono riportate alcune, fra le quali ho scelto questa dal titolo "Bèla, t'la durum" (Bella, che dormi).

Bèla, t'la durum in te tu nanè

at mand i mi sturnel a basa vos

chi vè ad arpusè in te tu cusè

E dop il dirà tanti bèli cuos

cal vè fura de cuor un può cunfusi

fra mez ad un mocc ed fiur e un mazz ad ruos

Ansò putrà mai dì, me sulament

tot quent e bèn ch'at voj e cum l'è fatt

parchè tra tanta gioia uj'è un turmènt...



Bella, che dormi nel tuo letto

ti mando i miei stornelli a bassa voce

che vengono a posarsi sul tuo cuscino

E dopo ti diranno tante belle cose

che vengono fuor dal cuore, un pò confuse

in mezzo ad un mucchio di fiori e un mazzo di rose

Nessun potrà dir, io soltanto

tutto il bene che ti voglio, e com'è fatto

perchè tra tanta gioia c'è un tormento...

martedì 13 dicembre 2011

Leggete e "indignatevi" (da "Repubblica")


La Lauretana sta a Cusercoli, venti chilometri in collina sopra Forlì. E' nel ramo dal dopoguerra, quando erano le donne di qui ad arrotondare facendo rosari in casa. Ma oggi, con la crisi e la delocalizzazione, produce anche in Cina, Albania, Ecuador, Romania. E non sempre è facile controllare gli intermediari...

Imparate il tedesk

con l'Associazione Albergatori di Cervia. Prima e secondo me anche ultima lessione.


- Ich bin Sabine. Wie heiss du?

- Ich... sunt... Cabine... la via... haiss... oss-cia, quanto tempo mi das?


- Sprechen Sie Deutch?

- No, la doccia non la spreco. Un bagno caldo, oppure un doccino veloce, ma senza esagerare con l'acqua, perché costa!


- Wo wonst du?

- Vo... vooooooo... voooooooooo... cos'è, l'autodromo di Misano?


- Wieviel Uhr ist es?

- Quanti fili = vi fil, urca, ist es è come ite messa est... quanti fili, circa, da qui alla messa è finita?


- Wie alt bist Du?

- Ah, io mi fermo sempre all'ALT!


- Wo ist die Apotheke?

- E' messa male, glielo dico in confidenza, quando ci sono le ipoteche è un guaio, poi vengono i pignoramenti e via.


- Wo ist den Bahnof?

- Ah, questa è facile. Il banof è sempre dritto e poi a destra in fondo, la destra è dove scrive... non si può sbagliare!


- Gerade aus?

- No, il Ghetoreid non l'abbiamo. Mi dispiace. Posso darle un Bitte.


- ...und rechts?

- il cane Rex, sì l'ho visto. Lo vedo sempre. E' un pastore tedesco, come Ratzinger.


- Keine gegende aus den Fenster werfen.

- I werfen sono quei fantastici biscotti ricoperti di una glassa al cioccolato, ma non si possono dare ai cani... ai keine, insomma... cani, keinen. Questo è l'assiòmoro tedesco.


- Nicht hinauslehnen.

- Conoscevo un proverbio, chi va piano, va leenen va lonténen.


- Ich bin, du bist, er ist, wir sind, ihr seid, sie sind.

- Sind come Sinderlist, Bin come Bin Laden, e del resto in Krukkilandia o iè na masa ed marucchèn.


- Restaurant. Bitte, Rotwein.

- No, i rottwein non li abbiamo. Posso darle un pittbull fresco fresco.


- Kartoffeln, bitte!

- Le scartoffie, no! Prenda del salame, è di mio cugino che fa il porco.


- Bitte?

- No, si chiama Werther. Werther Zaccherini.


- Brot...

- Prima di fare i rutti, si guardi prima allo specchio!


- Mit Speck?

- Sì, allo specchio.


- Oder mit Kase?

- I casi sono due, o lo mangia così, o lo mangia col formaggio!


- Fur meine Kinder...

- Con la sorpresina!


- Guten Appetit!

- Gutemberg, oss-cia, ie queli c'la inventé i zùrnel. Comunque, appetito.


- Gute Nacht!

- Non scaracchi, le do uno sciroppo contro il rozghìno.


Abbiamo trasmesso Sind come Sinderlist. Imparate il tedesk con l'Associazione Albergatori di Cervia. Prima e secondo me anche ultima lessione.


domenica 11 dicembre 2011

Il mistero dei versetti satanici di Roberto Piantala

e i suoi mitici Dirigibily di PioNbo.

di Pralina Tuttifrutti e Phederpher (Rehpredehp)




Era il lontano 1978 e Roberto Piantala, allora studente ripetente all'Istituto Confessionale Nautico di Cesenatico, mise insieme una rock band con Gimmi Pagina, Geremia Becchi e Giovanni Buono, i "Dirigibily di PioNbo", in omaggio ad un gruppo d'Oltremanica di quei tempi.
I quattro, a dispetto del prete proprietario del locale, si trovavano nella sua cantina di Forlimpopoli per provare i loro pezzi, ma erano talmente ignoranti che non riuscivano veramente ad accordarsi fra di loro. C'era da dire che tuttavia facevano faville con le ragazze, anche se l'alito alcoolico di Geremia Becchi non lasciava scampo.
Roberta Piantala era allora un fetido capellone, detto “la fonte del pus”. Si narra che si cambiasse le mutande soltanto per rimetterle all'arrovescio; in quanto a Giovanni era veramente un poco di Buono (mi scuso per il gioco di parole, veramente infimo). Pare che riuscisse a suonare soltanto dopo essersi scolato due litri di sangiovese di quello fatto con le bustine (fornito dalla Cantina Sociale Zanzi di Faenza).
Narra sempre la leggenda, che Gimmi Pagina fosse in realtà completamente sordo per un cotton fioc infilato nell'orecchio e mai più ritrovato, e quindi incapace di accordare la chitarra, ma nel gran bordello generale, con Buono alla grancassa e Becchi ai campanacci, era praticamente impossibile accorgersene.
Non si sa come, i quattro riuscirono a farsi fare un contratto dalla Casa Discografica “Il dioscoride di Piazza Saffi” di Forlì, dove incisero “Un disco nel culo” che divenne prestissimo un disco di cul(t)o in tutte le radio libere, che stavano nascendo proprio in quegli anni. Da allora furono contesi da tutti, tranne che dalla Circonferenza dei Vescovi Romagnoli per i quali il rock era un “fenomeno satanico” e in particolare quello dei “Dirigibily di PioNbo”. La diceria fu anche alimentata dalle presunte correlazioni tra il pizzetto di Becchi e quello di Belzebù. In seguito vi fu la storia di una strana “Stella a cinque punte” (in realtà un volantino delle Brigate Rozze che i nostri non avevano neanche letto), la quale, inserita nella locandina di un loro concerto all'arrovescio, venne interpretata per un simbolo satanico. La cosa finì in pasto ai media: il giornalino parrocchiale “La crosta di Cristo”, della Parrocchia di San Crispino, affermò che “esiste un profondo turbamento nell'ascoltare questo tipo di musica, per noi che eravamo ormai assuefatti all'Orchestra Ruspa di Massalombarda”. Nonostante ciò, furono chiamati a suonare alla Festa della Birra di Cotignola, alla Convention delle Sessatrici di Castelbolognese, e infine alla Sagra del Cinghiale tartufato di Zattaglia.
Dopo questi importanti appuntamenti, che li consacrarono al grande pubblico della bassa romagnola, furono chiamati anche a Frogstock, tuttora raduno agostano di rock-metal a Riolo Terme, e fu a quel punto che Roberto Piantala capì l'enorme potenziale della sua band. Infatti, sul palco di Riolo, messo in risalto il suo bel fisico con una mise di simil-pelle nera, una giacchetta aperta sull'ampio petto villoso, e una parrucca viola da metallaro, esordì grattandosi il pacco e gridando come un ossesso “Muovete quel culoooo, stronziii!!!”, e da quel momento diventò per tutti il Re del Rock e del Galateo. Le donne svenivano ai suoi piedi, specialmente quando si toglieva le scarpe, e ogni sera occupavano un albergo diverso. Si narra per esempio, che a Zadina avevano prenotato ben tre piani della Pensione “Stella Maris” con le loro ragazze, due baldraccone di terz'ordine pagate con gli spiccioli rubati da un cassettino delle elemosine, e per tre giorni e tre notti fecero una grande festa, interrotta solo per qualche tenera telefonata alla mamma.
Racconta Gimmi Pagina che scrivevano le loro canzoni buttando lì delle parole a caso ritagliate da “Famiglia Crostiana”, e questa sarebbe stata la ricetta del loro grande successo e anche della loro “maledizione”! Pare che veramente, se lette all'arrovescio, tutte quelle boiate dicessero cose quasi intelligenti.
La band si sciolse alla fine degli anni '80 per esaurimento della vena creatin... pardon, artistica. Ormai avevano venduto 467 copie dei loro dischi, quasi tutte curiosamente a Boncellino e dintorni, e si ritenevano quindi soddisfatti.
Ora, però, i "fab four" della Bassa Romagna sono uomini maturi e in carriera. Pagina fa il correttore di bozze al “Resto del Cretino”, Piantala ha un vivajo di ranuncoli a Valverde di Cesenatico, Becchi ha una catena di macellerie equine e Buono dirige un'agenzia di gorilla che proteggono alcuni dei più bei nomi della politica internazionale. E per concludere in "bellezza", mentre sopra avete potuto ammirare una delle photo più recenti del vero Robert Plant, sotto, nel filmato, potrete ascoltare una delle creazioni più originali di Roberto Piantala, dal titolo "Salita in Appennino" (a seguire un frontalino, di quelli pesanti).


Un anno fa a Bologna

lunedì, 06 dicembre 2010


Ridi, Bologna!



Una due giorni piuttosto intensa quella appena archiviata, e molto soddisfacente sul piano artistico. E con in più la ciliegina di questo libro, presentato ieri sera da Eraldo Turra (il meno magro del famoso duo Gemelli Ruggeri), che ha fatto da intrattenitore durante la serata dedicata alla gara di poesia orale svoltasi al Circolo Bertold Brecht, promossa dall'Associazione Culturale Via de' Poeti. Bologna, benchè non rappresenti nè per me nè per la mia attuale compagna una felice tappa della nostra vita, sia pure in tempi diversi, è comunque una delle capitali riconosciute della comicità italiana. Bene, questo libro, firmato anche da Eraldo Turra, ripercorre gli ultimi decenni di storia del cabaret e della comicità all'ombra delle Due Torri. Si parte con la mitica Carla Astolfi, attrice in dialetto bolognese, e giunta quest'anno al 75esimo anno di palcoscenico (con in più comparsate in film e spot pubblicitari) per proseguire con Lucio Dalla e Gianni Cavina (famoso per essere l'Ispettore Sarti). Lucio Dalla iniziò come cabarettista, alzi la mano chi lo sapeva! Bè, l'elenco è veramente sconfinato, se contiamo anche chi è solo passato professionalmente da Bologna, come Walter Chiari (che ci risiedette due anni, e finì poi per comprarsi una casa a Cervia, dove tutte le estati fanno, nella piazza centrale, una rassegna in suo onore, il "Sarchiapone"). A Bologna nacque appunto il gruppo del Gran Pavese: Susy Blady, Lupo Solitario, i Gemelli Ruggeri, Vito (che attualmente fa coppia artistica con una mia carissima amica di Faenza, Maria Pia Timo, in arte Wanda la carrellista). A Bologna è nato il rock demenziale degli Skiantos, guidati da Roberto "Freak" Antoni, sono nate rassegne che hanno lanciato artisti tuttora in auge, come la Zanzara d'Oro. Qui sono emersi personaggi come Ennio Marchetto, Paolo Hendel, Antonio Albanese, Paolo Cevoli, Giorgio Comaschi, Enzo Robutti, Fabio De Luigi, Veronica e Malandrino (in arte Marcolino e Padre Buozzi), Maurizio Ferrini, Alessandro Bergonzoni, Natalino Balasso, Eros Drusiani, Daniele Fabbri (in arte Luttazzi, in omaggio a Lelio), Maurizio Pagliari (in arte Duilio Pizzocchi), Gigi e Andrea, i fratelli Mario e Pippo Santonastaso, il Trio Reno, Bruno Nataloni, la Metallurgica Viganò, Gene Gnocchi, e poi il mitico "poeta sborone" Andrea Sasdelli (in arte Giuseppe Giacobazzi), e prima ancora Dino Sarti, Francesco Guccini e Andrea Mingardi, anche loro partiti come intrattenitori. Non tutti, come sapete, sono bolognesi doc, anzi, ma è un fatto che proprio a Bologna hanno trovato l'humus adatto per la loro crescita. E sicuramente sto dimenticando qualcuno! A Bologna per vari anni c'è stata la redazione del mitico settimanale satirico "Cuore", a cui ha contribuito anche la mia Pralina con due sue fantastiche vignette. E senza trascurare che proprio a Bologna, dopo Firenze e Milano, ha attecchito la Lega Italiana per l'Improvvisazione Teatrale, diffusasi poi nella vicina Romagna al punto che il Campionato d'Improvvisazione di quest'anno lo ha vinto la squadra di Ravenna. Qui cito due nomi sconosciuti ai più: Paolo Busi e Federico Palombarini, due autentiche macchine da risate. Poi ci sono anche grandi artisti non professionisti. Le compagnie dialettali di Bologna sono da sempre sinonimo di qualità, oltre che di divertimento: famosi anche in tutta la Regione erano i gruppi di Bruno Lanzarini, Arrigo Lucchini e Bruno Dellos. Purtroppo, con l'attuale crisi, le compagnie dialettali fanno ormai molta fatica a sostenere trasferte anche di poche decine di chilometri! Mi permetto a questo punto di citare un amico scomparso: Franco Frabboni, che aveva costituito una compagnia chiamata "Bulagna in dialett". Lo vidi recitare a Molinella due anni prima della morte, e ne aveva quasi ottanta. Bè, in palcoscenico sembrava al massimo un sessantenne, con un fisico asciutto e una vitalità incredibile. E con una verve comica ancora freschissima. E ancora un'ultima menzione per il gruppo "Ponte della Bionda", capitanati dal grande Fausto Carpani, coetaneo di Mingardi, comico, attore, cantautore e riesumatore del passato rinascimentale della città con spettacoli indimenticabili. E, ripeto, sto dimenticando ancora tanta gente. Qual'è il segreto, direte voi? Indubbiamente un'animaccia anarchica e dissacrante. E poi anche il fatto di trovarsi in posizione strategica, in modo da catalizzare anche tutti gli artisti nel raggio di almeno cento chilometri. E, last but not least, la messe enorme di locali e localini, cresciuti sopratutto come "indotto" dell'Alma Mater, la più vecchia università d'Europa. Giovani = voglia di divertirsi, anche se adesso, con l'invecchiamento della popolazione e lo spopolamento del centro storico, i problemi non mancano. Ora, per esempio, manca il sindaco, e la situazione economica è pesante. E anche lo sport sta soffrendo. Il Bologna lotta per non retrocedere, e le due squadre di pallacanestro (sport che a Bologna è più di una fede) sono da tempo relegate in campionati minori, causa fallimenti economici vari. Insomma... chi vivrà vedrà.

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Sempre restando a Bologna e in tema di comicità e riso, riproponiamo un vecchio divertente post di Alcide Brunazzi dal blog Versi e Versetti (ormai ex dato che hanno chiuso la piattaforma di Splinder)

venerdì, 29 agosto 2008


Scherzi d'altri tempi

Un personaggio a tutto tondo, di quelli di una volta tipicamente bolognesi, è un signore che si chiama Luigi Lepri (Gigèn d'Livra, in dialetto felsineo). Studioso del dialetto e attore in vernacolo, tiene da molti anni una piccola rubrica sulla pagina locale del RESTO DEL CARLINO dal titolo "Di ban sò, fantèsma!" (Raccontaci un pò, fantasma!), in cui racconta aneddoti, scherzi, frizzi e lazzi dei tempi che furono. Questo in particolare è davvero gustoso, e risale a una cinquantina d'anni fa. Uno studente dell'Alma Mater, particolarmente adepto del Dio Bacco, ad ogni sbronza veniva assalito dal rimorso e, per purificarsi, pregava gli amici di portarlo dove c'era molta acqua. Un bel mattino, dopo l'ennesima notte di eccessi alcoolici, si svegliò sulle rive di un fiume larghissimo, e concluse che gli amici lo avevano portato in macchina fino al Po, in pratica poco più di un'ora di viaggio da Bologna. Risalì barcollando l'argine e al primo passante che trovò gli si rivolse in dialetto bolognese, chiedendogli dove fosse il paese più vicino. L'uomo lo guardò sorpreso e, in perfetto francese, gli rispose che era a pochi chilometri da Parigi! In pratica quella volta lo scherzo fu pesante (e costoso!), visto che viaggiarono tutta la notte e oltre per scaricare l'amico lungo la Senna. Il nostro eroe, senza documenti e senza soldi, dovette faticare non poco per rientrare a Bologna. Finì poi per ritrovarsi coi soliti amici e, decidendo di stare al gioco, gli disse questo: "Ragàz, cal vèn al fà di miràcuel, a fòrza ad bevvar am sa truvè al Mulèn Rouge" (Ragazzi, quel vino fà miracoli, a forza di bere mi sono ritrovato al Moulin Rouge). Il tutto quindi si concluse in una solenne risata ed in una ancor più solenne bevuta, che il beone festeggiò col detto: "L'è mej al vèn fèss che l'acua cèra" (E' meglio il vino schietto che l'acqua pura). E Alcide questo lo sa molto bene e lo mette in pratica quasi ogni giorno...

Nel 2009 usciva questo bel volume delle Albe

martedì, 20 gennaio 2009


Novità editoriale - Teatro delle Albe




Finalmente è in libreria il volume "Teatro delle Albe. Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta 1998-2008", a cura di Marco Martinelli e la moglie Ermanna Montanari, edito da UBULIBRI. Si tratta di un libro che raccoglie dieci anni di lavoro del Teatro delle Albe, compagnia nata in Romagna nel 1977, e che nel dicembre 1998 metteva in scena al Teatro Rasi di Ravenna "I Polacchi", una liberissima interpretazione del celeberrimo UBU RE di Alfred Jarry. Andai a vedere la prima di quella che mi sembrava una delle tante reinterpretazioni dell'UBU, e mi trovai invece immerso in un caleidoscopio di musiche e luci del tutto impensate, e sopratutto, accanto agli attori professionisti del Teatro delle Albe, una schiera di giovani reclutati nei licei di Ravenna, con un nome che era tutto un programma: "I PALOTINI". Erano già diversi anni, infatti, che il buon Martinelli andava a tenere nelle scuole Superiori della città corsi di teatro, mettendo alla berlina i testi più classici di ogni tempo con un saggio finale che egli stesso chiamava "La Non Scuola delle Albe". L'idea in fondo era semplice: riscrivere i testi teatrali più famosi (come l'Ubu Re, appunto), destrutturandoli alla radice e adattandoli alle energie fresche dei giovani interpreti che, in quanto non essendo attori professionisti, potevano mettere in campo idee e soluzioni non preconfezionate. Non avrei mai immaginato che "I POLACCHI" avrebbe percorso buona parte d'Europa, e che, nel corso degli anni, sarebbe stato proposto anche in America e in Senegal, utilizzando giovani del luogo. Nel 2005, infatti, Martinelli sbarca a Chicago e mette in scena la versione locale: "MIGHTY, MIGHTY, UBU", con un successo di pubblico e di critica davvero inusuali. Due anni dopo Martinelli approda nel villaggio senegalese Diol Kadd, dove già da qualche anno le "Albe" tenevano laboratori teatrali, grazie alla propaggine senegalese della compagnia, già in essere dalla fine degli anni 80. Infine lo scorso anno l'esperienza del quartiere napoletano di Scampìa, dove il coro si è moltiplicato fino ad un centinaio di ragazzi in scena con "ARREVUOTO - UBU SOTTO TIRO". Si tratta di spettacoli che hanno permesso a ragazzi che diversamente non sarebbero nemmeno andati a teatro come spettatori, di rendersi autori e attori allo stesso tempo, lavorando spalla a spalla con attori professionisti e firmando una delle pagine più belle e vitali del teatro italiano di fine millennio. Il libro è impreziosito da splendide foto tutte superbamente incorniciate da incisioni riprese dallo stesso Jarry. Ancora, il tutto viene arricchito da un dvd allegato che riprende brani memorabili di queste quattro esperienze diluite in questi dieci anni di viaggio. Riporto alcune frasi dello stesso Martinelli: "La cifra inconfondibile di queste esperienze è stata l'unicità. Ogni incontro è stato irripetibile. Ci siamo sentiti veramente cittadini del mondo. Ogni condizione sociale con cui abbiamo fatto i conti ha creato un suo spettacolo unico e irripetibile. Porto nel cuore ognuna di queste esperienze, non potendo veramente sceglierne alcuna a discapito delle altre. E' chiaro anche che ogni due anni si rendeva necessario rinnovare il gruppo dei ragazzi, perchè con l'andare avanti con le repliche il gruppo originale perdeva spontaneità, e bisognava andare a pescare nel mare magnum della "non-scuola", nei licei di Ravenna. Ed è stato così che ci è venuta l'idea che avremmo potuto arricchire lo spettacolo andando a pescare proprio dalle nazioni dove lo stavamo portando, rendendolo unico a causa delle caratteristiche locali che vi sarebbero confluite. E un paio di queste esperienze, il Senegal e Scampia, stanno tuttora andando avanti". Conobbi Marco Martinelli nel 1985 quando all'epoca stava completando un trittico ispirato alle opere di fantascienza di Phillip Dick, quello di "Blade Runner", e posso dire che la cosa che rende unico questo straordinario autore è la sua linea poetica che è rimasta fedele nel corso di quasi tre decenni, e che lo ha reso famoso e popolare presso gli addetti ai lavori di mezzo Pianeta. Il tutto partendo da una cittadina di provincia famosa solo per i mosaici e per l'inquinamento causato dal suo polo chimico.


L'attore in bicicletta - da un post del 2007 -

Mogliano Veneto - 9 novembre 1926
Firenze – 5 dicembre 2007


Toni Comello è morto a 81 anni dopo averne spesi cinquanta a divulgare cultura come studioso, autore, traduttore, formatore, attore e regista. La somma sintesi della sua vita artistica rimane nelle sue Esplorazioni Dantesche.
A trent’anni diede vita, insieme al ravennate Walter Della Monica, al TREBBO POETICO (dal latino TRIVIUM, il punto d’incontro tra le vie del poeta, dell’attore e dello spettatore): incontri popolari di piazza in Italia e all’estero, spesso in presenza dei più grandi poeti italiani, Ungaretti in prima fila, dal ‘57 Presidente del Trebbo. Per ascoltare la Poesia spiegata e recitata da Comello con rigore e passione ma senza accademismi, confluiscono folle, composte da persone di ogni ceto e livello culturale, dai contadini agli intellettuali, dal Presidente della Repubblica ai minatori emigrati in Olanda.
A partire dal 1960 propone anche spettacoli-documentario su tematiche civili: Risorgimento, Resistenza, l’enciclica "Pacem in terris" di Roncalli, l’opera di Gramsci.

Nel 1965 si stabilisce a Milano, in via De Amicis 17, dove fonda il Centro di Lavoro Teatrale "Il Trebbo", instaurando un rapporto privilegiato con la Scuola e l’Università: inventa e diventa sè stesso il teatro del ’68, e prosegue nell’opera di avvicinamento ai grandi testi della letteratura italiana: Dante, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Ungaretti, Montale.
Sono di questi anni i suoi spettacoli più memorabili: "Serva Italia", "Antigone", "Con atto e con parola".

Dal 1977 inizia a lavorare per la Scuola dell’obbligo, inventando "Le Favole della Realtà", spettacoli-lezioni-gioco su argomenti scolastici: imparare divertendosi, una scuola in movimento. Con un seguito tuttora enorme: in trent’anni di repliche hanno partecipato oltre un milione di scolari.
Il primo lavoro è un omaggio a Montale, che presenzia commosso a un incontro con centinaia di bambini che esponevano i propri disegni ispirati dallo spettacolo.

Nel corso degli anni crea una dozzina di lezioni-gioco (storia, matematica, scienze, musica), seguiti da 50.000 alunni ogni stagione, provenienti da ogni angolo della Lombardia. Negli ultimi anni arrivano al Trebbo maestre già venute da piccole. E da diverse stagioni altri gruppi teatrali mettono in scena "Le Favole della Realtà" a Torino, Bergamo, Firenze, Roma.

Toni Comello continua inoltre a girare l’Italia per far conoscere la Poesia ai giovani. Lo fa in bicicletta, fino a 75 anni, dal Salento alla Carnia e fino alla Sardegna.
Quando smette di pedalare continua comunque a lavorare: licei e associazioni di tutta Italia continuano a richiedergli le sue Esplorazioni Dantesche. E, sentendosi ormai "pronto", dopo una vita passata a studiare la Divina Commedia, inizia a tradurre Omero e Virgilio.

Negli ultimi anni corona un suo sogno: stabilirsi a Firenze, lasciando parzialmente Milano, dalla cui Amministrazione non ha mai ricevuto la giusta considerazione. Si pensi che nel 1994 ricevette perfino lo sfratto dal Comune, che fu subito revocato a causa del fiume di lettere di indignata protesta, (capofila il poeta Andrea Zanzotto, recentemente scomparso), provenienti da personalità dello spettacolo, della cultura, della società civile e dell’università, oltre a migliaia di firme di presidi, professori, maestre, studenti e alunni di tutta Italia. Supportato da studiosi europei e americani, mette in piedi a Firenze a ottant’anni, un centro di studi danteschi per proseguire la divulgazione della Divina Commedia agli studenti stranieri e italiani in gita scolastica, con il vigore e la precisione di sempre. Fino all’ultimo in salute, muore a causa di un’improvvisa malattia.

Ho postato questo copiaincolla per celebrare uno dei più grandi attori e interpreti della Divina Commedia, ma non solo. Proprio in Romagna, il 6 gennaio 1956 a Cervia, partì l'avventura del TREBBO POETICO. L'esperienza durò fino al 1965 e toccò vari paesi d'Europa. Della Monica, che nel 1974 fondò il Centro Relazioni Culturali a Ravenna, ora lo celebra con un CD di letture che partono da quel fatidico 1956, ma tutto questo dopo anni di silenzio e disinteresse nei suoi confronti. Ravenna e la Romagna lo avevano dimenticato: in una sola occasione tornò a trovare Della Monica, sollecitato dal poeta Fausto Fori, e non fu un incontro memorabile. Su Youtube si trovano ancora spezzoni del grande Toni, assolutamente fantastici. Nella disgrazia occorre dire che la morte gli ha risparmiato di vedere gli ulteriori orrori di questi anni, con la cultura relegata sempre più in basso e con il Dio Denaro a farla sempre più da padrone. Magra consolazione, però.

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Sempre a proposito di Tony Comello...

lunedì, 23 novembre 2009


la Sbonfiata del lunedì

Quando nel 1971 il buon vecchio Walter Della Monica da Ravenna, animatore insieme allo scomparso Tony Comello di quell'esperienza entusiasmante che fu il "Trebbo Poetico" che infiammò dal 1956 al 1965 le piazze di ogni parte d'Italia, ideò il Premio Giornalistico "Guidarello" per dare un giusto riconoscimento ai giornalisti che valorizzavano l'arte e la cultura emilio-romagnole, non poteva immaginare nemmeno lontanamente gli sviluppi che avrebbe preso. Per circa trent'anni il Premio fu gestito da personaggi locali comunque di altissimo spessore (uno per tutti, Sergio Zavoli), premiando giornalisti locali ma anche nazionali sia per il loro contributo alla conoscenza delle nostre zone e delle loro peculiarità, sia per la loro caratura e autorità indiscussa. Ad esempio nel 1990 ebbi la fortuna di incontrare uno dei miei idoli assoluti, Gianni Brera, un anno prima che morisse in un incidente d'auto. Ma i tempi cambiano, si sa, e una città come Ravenna non può vivere solo di basiliche bizantine, di mosaici e simili quisquilie. E così da qualche anno anche il "Guidarello" si è "modernizzato". Via l'ottuagenario Della Monica, e con lui anche tutti quelli che hanno reso questo premio da provinciale a nazionale, e di grande lustro, e dentro un nuovo comitato presieduto da uno che di giornalismo se ne intende, eccome: il mitico Bruno Vespa. Sì, proprio quello che nel dicembre 1969 informò l'Italia tutta che era stato preso il vile attentatore di Piazza Fontana, l'anarchico Pietro Valpreda, scagionato dopo anni di processi e dopo avergli rovinato l'esistenza. Insomma, largo ai giovani e al "nuovo" che avanza. E cosa t'inventa il Vespabruno per "rialzare" le sorti del Guidarello? Idea da cento milioni: premiare ogni anno un personaggio televisivo, notissimo, ma che col giornalismo non c'entra un'emerita cippa di cazzo. E così, dopo Mike Bongiorno, Paolo Bonolis e Fiorello, quest'anno è toccato a Gerry Scotti, che, almeno lui, ha fatto l'unica domanda intelligente possibile da fare: "Ma perchè mi avete premiato?". Dopo questo picco isolato, il buon Gerry è subito ritornato nella media, o meglio, nella Mediaset, lamentandosi della lontananza dagli studi di Silvio Berlusconi: "Sapete, per via del conflitto d'interessi". Vero, Gerry, e magari perchè non dorme la notte per evitare processi o per studiare nuove barzellette da usare durante "vertici" come quello della FAO. Ma Vespa non si è fermato qui. Ai ragazzini delle tante scuole locali presenti nell'ottocentesco Teatro Alighieri ha raccomandato di non fare i giornalisti (giusto, se devono seguire il suo esempio...), e magari di costruire macchine movimento terra (serviranno molto, dato che stanno affossando l'agricoltura). Ovviamente non c'era solo il Riso Scotti fra i premiati, ma anche giornalisti veri come Oscar Giannino che ha demolito i giornalisti economici dipingendoli come i "più stupidi di tutti" (io mi sarei limitato a prezzolati), Massimo Mucchetti e Mario Deaglio. Mucchetti in particolare ha gelato la borghesissima e tronfia platea dicendo che se fosse in Berlusconi "comincerei a tassare il capitale morto", ossia le seconde, triple e quarte case, rintuzzato però dal VespaB. che ha rassicurato gli indigenti presenti dicendo: "Ma Berlusconi tanto non lo farà mai". Tra i premiati col Guidarello ad honorem un altro famoso "giornalista", Guido Bertolaso, che ha confermato il proposito di mollare la Protezione Civile a fine anno, rintuzzato dallo straziato VespaBrrrr che lo ha implorato di rimanere, perchè lui è colui "che insieme a Berlusconi ha risolto il problema dei rifiuti a Napoli". E anche qui giù applausi. Più tiepidi invece gli applausi al sindaco Matteucci (PD ma non lo dimostra) a cui il solito insetto ha chiesto come si sente nelle vesti del sindaco "giustiziere", dato che a Ravenna ormai ti proibiscono persino di respirare emettendo suoni di frequenze troppo acute pena multe salatissime. Insomma, questo è quanto. Termino dicendo che ai tempi di quando conobbi il mitico Giuanun collaboravo con sei testate giornalistiche locali e nazionali, e al Guidarello un pensierino ce l'avevo fatto, magari in età matura. Se lo tengano per loro, adesso, il loro premio di merda. Io adesso ho l'amore e i baci di Pralina, e questo è il mio premio più bello. E comunque non perdetevi le prossime edizioni. Potrete vedere dal vivo Pippo Baudo, Antonella Clerici, lo stesso Berlusconi...

dal blog "Versi e Versacci" Splinder


sabato 3 dicembre 2011

Ravenna la durata di un trapasso

 
In concomitanza con l'inaugurazione presso l'antica e prestigiosa Biblioteca Classense di Ravenna della mostra che riguarda l'affascinante opera come incisore del grande gallerista Giuseppe Maestri, ecco pubblicato il film realizzato l'anno scorso e contenente le interviste a lui e al poeta Eugenio Vitali, ideatore nel 1971 della "poesia da affissione", idea poi ripresa persino in Inghilterra. Due persone a cui sono legato da oltre trent'anni e che recano preziose testimonianze dei cambiamenti intervenuti in una piccola realtà di provincia, che sono però lo specchio fedele di un cambiamento globale che è purtroppo in peggioramento sotto tutti i punti di vista. Un cambiamento comunque pagato caro, dato che dal 1956, anno dell'arrivo dell'industria petrolchimica, il tasso di tumori è cresciuto in modo esponenziale, e tuttora miete copiosamente, purtroppo. Troverete un paio di poesie del grande poeta Vitali, all'inizio immagini autunnali della zona della pineta che confina col porto canale e le industrie e, in coda, alcune incisioni di Giuseppe, forse l'ultimo grande artista che possiamo definire "erede" della poetica "lunare" felliniana. E d'altro canto Tonino Guerra era, ed è tuttora, di casa nella sua vecchia galleria, che recentemente un suo amico pittore ha riportato a nuova vita dopo tre anni di triste abbandono. Anche se, però, i tempi gloriosi sono terminati da un pezzo. Riguardo a questo, infatti, troverete rare e preziose immagini tratte dal suo archivio fotografico a partire dal 1965, col passaggio dei più grandi pittori del secolo scorso: Treccani, Sassu, Migneco, Sironi, Calabria, eccetera, e anche di vari poeti: Rafael Alberti, Mario Luzi, Piero Santi, e tanti altri. Colpisce di Giuseppe la grande semplicità, la grande umanità, il raccontarsi in modo schietto e simpatico, il "bucare" lo schermo. Era sempre sorridente, Giuseppe, pronto alla battuta in dialetto e allo sfornare aneddoti. Ha lasciato davvero un vuoto irrecuperabile.

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dal blog "Versi e Versacci" Splinder:

martedì, 27 ottobre 2009

Giuseppe Maestri ci ha lasciato



Uno dei post più tristi che potessi fare. Mentre mi trovavo nello storico Borgo San Rocco di Ravenna ho appreso da un manifesto mortuario la triste notizia. Giuseppe Maestri era un'icona, un simbolo, una leggenda vivente dell'arte romagnola, che conobbi nel fatidico anno 1977, quando iniziai a scrivere poesie, a fare teatro, a dipingere e fare incisioni. In quell'anno ero anche tipografo e uno dei nostri clienti era appunto la Galleria "La Bottega", che Maestri aveva creato nel 1965 insieme alla moglie Angelina Tienghi, sorella di Ugo, pittore e mio professore di disegno nonchè grande amico del mitico Osvaldo Cavandoli (ideatore della "Linea" che spopolò su "Carosello" per molti anni), e ad Alberto Martini. Era nato nel 1929 a Sant'Alberto, grosso centro a ridosso della foce del Reno e che il grande Cesare Zavattini ebbe a definire come il "tipico villaggio della Pianura Padana". Questo paese dette i natali, nell'800, al grande Olindo Guerrini (detto Stecchetti), grandissimo poeta e umorista stimatissimo da Carducci, Pascoli e D'Annunzio, e a Francesco Talanti, traduttore di varie parti della Divina Commedia in dialetto romagnolo santalbertese, nonchè poliglotta, giramondo, matematico e scienziato illustre. Di "Gepi" ho ricordi stupendi e tenerissimi. Da buon romagnolo era uno spirito libero, anarcoide, di buon cuore e sempre attento e curioso a tutto. Non l'ho mai visto arrabbiato una sola volta, aveva sempre il sorriso stampato in volto e un tono di voce suadente e rassicurante. Da buon anarcoide non amava questo mondo (Ste mundazz brott, questo mondaccio brutto, soleva dire), e non pretese nulla, anche se diede tantissimo. Per decenni la sua galleria è stato IL crocevia romagnolo di alcuni dei più grandi artisti del 900 europeo. Ne cito solo alcuni: Mario Luzi, Rafael Alberti, Piero Santi, Aligi Sassu, Andrea Zanzotto, Tonino Guerra (che grazie alla moglie georgiana lo ha fatto conoscere anche in Russia), Renato Guttuso. Perchè Maestri oltre che organizzatore di eventi era anche un grandissimo incisore. Negli anni 90 pubblicò una mirabolante produzione di pregevoli incisioni a colori per "una Ravenna sognata", in cui gli elementi onirici (e qui l'influenza di Federico Fellini mutuata da Tonino Guerra era evidentissima), si sposavano in modo mirabile agli elementi architettonici delle basiliche bizantine e dei palazzi degli antichi Imperatori barbarici che ivi risiedettero. Negli ultimi anni veniva chiamato spesso a serate nei circoli e nei teatri in cui dava voce al suo conterraneo Stecchetti, leggendo le licenziose "Rime di Argia Sbolenfi" e gli arguti "Sonetti Romagnoli", che hanno reso immortale Guerrini. Qualche anno fa passando davanti alla sua Bottega dove era intento a stampare alcune delle sue creazioni, ebbi l'intuizione di entrare con la mia piccola Canon digitale e lo intervistai, filmando anche le tante foto degli anni 60 in bianco e nero in cui veniva ritratto insieme ai tanti artisti da lui ospitati in Galleria. Un documento ora preziosissimo, che proprio in questo periodo stavo pensando di integrare ad un'altra intervista fatta al grande poeta ravennate EUGENIO VITALI (ora 75enne), per ricavarne un lungometraggio che potesse salvare la memoria di questi due grandi artisti che hanno dato lustro a Ravenna. Difficile ora pensare che non lo rivedrò più, che il suo sorriso dolce e bonario si è spento per sempre, che non valicherò più quel locale, vedendolo intento al torchio, con lui che mi saluta dicendomi "Uei, tabacazz, coma steet? Cuss'et faat?" (Ciao, ragazzaccio, come stai? Cos'hai combinato?). Data l'età potrei dire che ho perso un padre, ma preferisco dire che ho perso un fratello. Dopo la morte di Edgardo Siroli, Stecchetti ha perso il suo più autentico cantore, e la Romagna un pezzo consistente della sua anima più vera e segreta. Pubblico una breve intervista non per allungare il brodo, ma perchè rivedere le sue parole un pò mi fa bene. Inutile dire che sono straziato. Anche perchè in un qualsiasi Paese europeo di uno come lui si sarebbero occupati TV e giornali nazionali, mentre qui è stato già difficile trovare qualcosa sui quotidiani locali e sul web. Che schifo.
La Bottega, nata con entusiasmo nella Ravenna di oltre 40 anni fa da un’idea di Alberto Martini, condirettore della mitica collana Fabbri I maestri del colore, non fu solo una galleria importante per la città aprendola al panorama artistico nazionale di allora, cosa di cui beneficiarono anche gli artisti locali, ma insieme divenne luogo di incontro e scontro del fare arte, tra artisti diversi e valenti, talvolta con discussioni accese, polemiche, talaltra con condivisione di ideali, ma sempre con circolo e scambio continuo di idee. Era un luogo fresco per la mente e le mani di tante creatività.
Si cominciò con l’esposizione di Aligi Sassu. A seguire e con coraggio nella Ravenna rossa dell’epoca, ma pensando solo al dato artistico, le retrospettive su Carrà e soprattutto Sironi, in cui intervennero i figli degli artisti scomparsi da poco tempo. Poi, tra gli altri, Treccani, Guttuso, Calabria, Moreni, Giò Pomodoro, oltre ai locali Ruffini, Guberti, Folli, Giangrandi, nonché alle visite prolifiche dei maestri del Gruppo mosaicisti di scuola ravennate, che allora aveva sede nello stesso quartiere.
La scomparsa o la mutazione in tempi recenti di questi luoghi frequentati dagli artisti (non so, penso a ciò che doveva essere nei medesimi anni ’50/’60 il Bar Giamaica di Milano, anche dal racconto che me ne fece l’artista bergamasco Rino Carrara), ovvero spazi condivisi, che non siano solo vernici in gallerie asettiche e griffate, è una delle cose più tristi degli ultimi anni: anche l’ambito artistico ha ceduto all’isolamento forzato che sembra aver conquistato la società, frammentando tante identità, insterilendole talvolta in soliloqui privi del beneficio della discussione.
Preoccupazioni queste, comuni ad artisti differenti anche per età, come ho potuto constatare in conversazioni recenti con Claudio Olivieri e Francesco Bocchini.
Olivieri fa ancora parte di quella generazione che si impegnava con pamphlet e scritti salati se necessario, proprio come Mattia Moreni, uno dei protagonisti della Bottega, come racconta Maestri, che ne curò tutte le 5 o 6 serie di incisioni, come spesso faceva con molti degli artisti ospitati.
Moreni, si sa, non aveva carattere facile, ma a differenza di numerosi dibattiti feroci con tanti artisti, nutriva un rispetto sincero e profondo per Giuseppe Maestri, a cominciare dal suo mestiere antico, oltre alla sua abilità innegabile, come del resto, da sempre testimoniano la stima e l’affetto di Raffaele De Grada per la sua opera.
Persino all’ultima antologica di Maestri lo scorso Maggio (L’onirica navigazione, Chiesa del Pio Suffragio, Bagnacavallo -Ra-), il grande critico, ormai novantenne, ha voluto essere presente e omaggiare l’amico mai dimenticato.
E con ragione, dato che Giuseppe Maestri, anche se non lo ammetterà mai, oltre che maestro d’arte lo è anche di vita, per la sua generosità, l’affabilità e la non comune perizia tecnica, caratteristiche inscindibili, come, senza volere, mi ha dimostrato: fluiva il discorso su tante vicende della Bottega e oltre, sui segreti delle tecniche incisorie che Maestri conosce come pochi per averle frequentate tutte, su Marco Dente incisore ravennate nella Roma del primo ‘500, sulle finezze nelle pitture e soprattutto nelle incisioni di Dürer, apprese a sua volta grazie al bulino e all’arte orafa del padre, mentre con estrema naturalezza e semplicità, col suo inconfondibile sorriso, Maestri continuava a lavorare al torchio.
D: In queste pitture ed incisioni, hai saputo inventare un mondo di sogno, una Ravenna che non c’è, eppure potrebbe essere, dietro alle stesse case e monumenti che sono quotidianamente sotto i nostri occhi forse un po’distratti o abituati. E’ come se ne avessi colto, con poesia, il fantasma buono, niente a che fare con gli incubi, anzi: penso ai tuoi blu notte, alle porte, muri, finestre coloratissimi, al Mausoleo di Teoderico che lascia l’imponenza della pietra e viene da te trasformato, magia vera, nella tenda d’assedio del re mossa dal vento. E ancora file di case, non c’è direzione unica in questo mondo, sopra e sotto eventuali orizzonti, tutto resta sospeso, incantato…
R: E’ una Ravenna fantastica, è vero, che sta sulle dune...sono racconti per immagini, perché talvolta attraverso le immagini le cose si spiegano meglio. Ma è un mondo interno che viene fuori, poi, certo, può ricordare qualcosa di quello esterno, ma non la storia ufficiale, troppo difficile, a parte giusto un riferimento all’assedio di Ravenna, che in effetti ci fu e per ben tre anni ad opera del re Teodorico: solo che ho immaginato la tenda che terminava con la cupola del Mausoleo… I colori illuminano i miei lavori, come quelli dei bambini, si potrebbe dire che non sono mai maturato...pensa che un artista giovane con cui ho collaborato di recente, Nicola Samorì, guardando le mie cose, ha detto che davvero gli sono sembrato più giovane di lui! Ma i colori sono anche una forma di protesta personale: perché arrendersi al grigiore del mondo?
D: Ho notato che da queste visioni di città sono pressoché assenti le figure umane: sono le architetture le protagoniste animate, fluttuanti, a galleggiare sospese su “acquecielo”, come le isole della Ravenna antica, dove però coesistono più lune insieme, mezze o piene, anch’esse appese a fili invisibili, galleggianti in “cielimare” con pesci a posto delle stelle e vele, vele di barche e case come vele...
R: Già, sarà perché sono nato vicino ad un fiume, a Sant’Alberto e vedevo sempre le barche: in fondo le navi sono un simbolo, di arrivo e partenze. Ravenna e Bisanzio poi erano due importanti porti antichi, collegati tra loro e i bordi di certe incisioni, come vedi, sono decorati un po’ all’orientale, con figure varie, galleggianti… Poi sarà che nella Bottega in tanti anni ho conosciuto tanti “matti”, che forse un po’ di quella follia l’ho ereditata anch’io...
D: E tecnicamente?
R: Per me l’incisione è un linguaggio legato sia alla pittura che alla scultura. Le mie incisioni non sono proprio ortodosse, alla Morandi, per fare un esempio: sono miste, non si tratta solo di preparare la lastra e disegnarla: in queste acquetinte, ceremolli, c’è il colore, per me importante, e la casualità che gioca nel contesto di preparazione del lavoro. Poi il risultato può piacermi e avvicinarsi o meno a ciò che voglio, ma, ed ecco il paradosso, nel momento in cui si accetta il caso a cooperare, non c’è più l’elemento casuale…
D: So che La Bottega è stata frequentata anche da poeti importanti come Luzi, Zanzotto, Guerra soprattutto, con cui spesso hai collaborato e tuttora, ritraducendo con approvazione, componimenti dal suo al tuo dialetto, il santalbertese. Del resto, come si diceva una volta, sei anche un fine dicitore di versi, specie in dialetto, cosa che ti ha portato, talvolta collaborando con l’attore Marescotti o in recital solistici, a far conoscere Tonino Guerra appunto, Nino Pedretti, Raffaello Baldini, ultimamente Nevio Spadoni, oltre al classico di sempre, Olindo Guerrini/Lorenzo Stecchetti e molti altri anche in italiano, non escluso Dante.
R: Sai, il rapporto con la parola e la poesia per me è sempre stato importante, specie con la lingua del dialetto: è la mia lingua madre, quella con cui penso, quella con cui la mia generazione è cresciuta, la lingua di un mondo che voi ragazzi, potete capire ma non sentire fino in fondo. Ecco queste parole hanno un colore, che non può essere capito fino in fondo.

Il finto placcato oro



Un mio racconto di qualche anno fa, agosto 2007

E' vero che in Romagna c'è tutto. In questi giorni me ne sono accorta. Terra del sole si dice, in realtà la luna la fa da padrona. Ha piovuto, è stato nuvolo, ma non importa. Il mare è bellissimo anche quando tira vento e sembra che stia per tornare l'autunno da un momento all'altro. Attraversare la Romagna, dal confine con la provincia di Pesaro con le sue dolci colline e valli attraversate da torrenti, a Faenza la città delle ceramiche, è sempre una sorpresa anche per una romagnola. Tutto cambia con una velocità incredibile, negli ultimi tempi sono arrivati tantissimi senegalesi, che hanno preso l'abitudine locale di spostarsi in bicicletta. Sono fiorite feste e sagre ovunque, il kiwi è diventato un frutto locale, a Santarcangelo si fa teatro d'avanguardia e fino a notte fonda si può ballare con la musica marocchina, e la birra ha quasi soppiantato il Sangiovese.
Sono spariti dalla spiagge, soppiantati dai venditori di Rolex fasulli... gli immancabili goliardi di ferragosto, i "boni boni lecca lecca" degli spiedini di frutta candita che facevano coppia fissa con i "cocco bbbello" e i fotografi che viaggiavano con la giraffa di pelouche, le collane di fiori hawaiane, i pappagalli veri e le palme di plastica.
Ma ci sono le colonne portanti che continuano a caratterizzare la Romagna.
Una delle colonne portanti è il chiosco di piadine. Il chiosco di piadine è un piccolo tempio dove la 'rzdora o il baffo detta la sua legge... ne sono sorti centinaia, da Cervia a Castrocaro, di chioschi di piadine. La piadina è un cibo del neolitico. Ma i chioschi sono storia più recente. Trent'anni orsono (tanti sono gli anni che mi separano dal mio primo chiosco di piadine della memoria) i pionieri della farina con lo strutto che agitavano i loro manicotti bianchi sui ripiani roventi, facevano solo piadina e prosciutto crudo, oppure un calzone di piadina ripieno di quest'erba comune tanto facile a crescere nelle nebbie e piogge romagnole da beccarsi il titolo di "crescione".
Poi il menù dei chioschi di piadine ha incluso lo squacquerone (formaggio fresco locale usato per farcire i cappelletti), lo stracchino e la rucola, il pomodoro e la mozzarella, il prosciutto cotto e i funghi, e progressivamente siamo arrivati all'aberrante connubio di nutella e banane (per la gioia dei diabetici).
Un'altra colonna portante è il liscio. Molti credono che il liscio non abbia radici, in realtà è un'elaborazione del saltarello, della mazurka e di altri balli popolari che si facevano nelle aie. Poi è arrivato Secondo Casadei che ha inventato Romagna mia.
L'abbigliamento dei musicisti di liscio è una cosa degna di nota: ciuffo rockabilly, cravatta papillon, giacca coi brillantini fuxia, scarpe leopardate. Mentre le cantanti dal ricciolo permanentato o liscio melange stile cavia peruviana indossano minigonne mozzafiato simil domopack di alluminio. Ad ogni modo, ai romagnoli piace ballare. A dire la verità, piace mangiare, ballare e fare l'amore.
Entrare in una discoteca romagnola è una full immersion nel kitsch dove può capitare di trovare un baldo settantenne vestito come un adolescente con tanto di jeans fasciatissimi e di parrucchino biondo a caschetto (sembrava il nonno di Benny Hill) che si da da fare con due ragazze, oppure (com'è capitato a me) trovarmi un uomo che si siede accanto e si presenta "Piacere, sono giornalista" "In quale giornale lavori?" "Negli annunci economici".
Terza colonna portante i vitelloni. Esistono ancora, ragazze. Non li ha inventati Fellini. Verso sera, quando il sole tramonta dall'altra parte (non ho mai capito perché si ostinano a fare le cartoline con sopra scritto tramonto sull'Adriatico) se ne stanno seduti al tavolo di un bar sulla spiaggia con la schiena tirata tutta indietro e ci fanno la radiografia. Sguardo obliquo e vagamente interessato. Stakanovisti del sesso, almeno a parole, parlano solo ed esclusivamente di quello.
L'uomo romagnolo che fisicamente è riassunto nell'immagine di Piero Focaccia assomiglia al meridionale con in più il fatto che di certi argomenti parlano a voce alta, anzi ti urlano quasi nell'orecchio. Tutti i romagnoli e le romagnole parlano (e ridono) con un tono di voce più alta del consueto. Sui pulmann di linea dovrebbero mettere il cartello "vietato parlare al conducente, perché se no il conducente ti fa un comizio di risposta". E così, in poco tempo, apprendi un sacco di particolari della loro vita intima, compresa una corrispondenza con una brasiliana e una ucraina, che sono il "non plus ultrax" e li fanno fare "Ooooooscia" con un risucchio di respiro che pare quello di una cannuccia al termine della bibita.
Il vitellone romagnolo oggi è avvantaggiato dalla chat e dai sms, ma fondamentalmente non è cambiato: è esterofilo, ha la stessa automobile con la prima marcia ingranata e il gomito fuori dal finestrino per seguire le ragazze passo passo, la stessa camicia hawaiana sbottonata, la stessa catenina in finto placcato oro, gli stessi capelli portati un po' lunghi dietro, gli stessi rayban, gli stessi baffi spioventi da Asterix, la stessa abbronzatura che inizia con la lampada in aprile e termina con la crociera di ottobre, le stesse frasi da rimorchio. E siccome il modo di parlare le lingue straniere per un romagnolo è terrificante, sentirli parlare "in straniero" è quanto di più divertente si possa immaginare.
Una volta tanto per cavarmi uno sfizio, mi finsi tedesca (cosa facilissima per me) con uno di questi. Non so perché, ma mi venne naturale. Mia madre era abituata a difendersi dagli assalti dei venditori ambulanti al mercato che le proponevano occhiali da sole urlando "Luki luki, fròilen" "Cosa luki, non sono mica tedesca!".
Il tipo fermò la macchina dove stavo io, e cominciò a dirmi "Fròilen... ensciuldighenzibitter". Alché restai al gioco. Il suo tedesco annaspava, ma tentò lo stesso (il romagnolo è coraggioso, tenta sempre e comunque, ha l'istinto riproduttivo come i salmoni controcorrente) e iniziò a chiamarmi "Cameraden" e poi si scusò "il mio tedesco è quel che è" e subito dopo mi propose di "Vulevù spazziren con me sul lungomaren si bitter, una bella promenade, solo questo" e poi aggiunse "a Cesenatico" e mi ripetè scandendolo "a Ce-se-na-ti-co" perché quel nome profumato di arselle e di vongole mi arrivasse fin sotto le ascelle mongole. Ero piegata in due dal ridere, ma impassibile.
Credo che il finto placcato oro entrerà a pieno titolo nei miei neologismi. La prossima volta che entro nell'oreficeria di quel giocatore d'azzardo, che ha delle cose veramente carine a un prezzo contenuto, gli dico "Scusi, vorrei la catenina finto placcato oro, devo fare la patacca".

Pralina Tuttifrutti