sabato 3 dicembre 2011

Ravenna la durata di un trapasso

 
In concomitanza con l'inaugurazione presso l'antica e prestigiosa Biblioteca Classense di Ravenna della mostra che riguarda l'affascinante opera come incisore del grande gallerista Giuseppe Maestri, ecco pubblicato il film realizzato l'anno scorso e contenente le interviste a lui e al poeta Eugenio Vitali, ideatore nel 1971 della "poesia da affissione", idea poi ripresa persino in Inghilterra. Due persone a cui sono legato da oltre trent'anni e che recano preziose testimonianze dei cambiamenti intervenuti in una piccola realtà di provincia, che sono però lo specchio fedele di un cambiamento globale che è purtroppo in peggioramento sotto tutti i punti di vista. Un cambiamento comunque pagato caro, dato che dal 1956, anno dell'arrivo dell'industria petrolchimica, il tasso di tumori è cresciuto in modo esponenziale, e tuttora miete copiosamente, purtroppo. Troverete un paio di poesie del grande poeta Vitali, all'inizio immagini autunnali della zona della pineta che confina col porto canale e le industrie e, in coda, alcune incisioni di Giuseppe, forse l'ultimo grande artista che possiamo definire "erede" della poetica "lunare" felliniana. E d'altro canto Tonino Guerra era, ed è tuttora, di casa nella sua vecchia galleria, che recentemente un suo amico pittore ha riportato a nuova vita dopo tre anni di triste abbandono. Anche se, però, i tempi gloriosi sono terminati da un pezzo. Riguardo a questo, infatti, troverete rare e preziose immagini tratte dal suo archivio fotografico a partire dal 1965, col passaggio dei più grandi pittori del secolo scorso: Treccani, Sassu, Migneco, Sironi, Calabria, eccetera, e anche di vari poeti: Rafael Alberti, Mario Luzi, Piero Santi, e tanti altri. Colpisce di Giuseppe la grande semplicità, la grande umanità, il raccontarsi in modo schietto e simpatico, il "bucare" lo schermo. Era sempre sorridente, Giuseppe, pronto alla battuta in dialetto e allo sfornare aneddoti. Ha lasciato davvero un vuoto irrecuperabile.

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dal blog "Versi e Versacci" Splinder:

martedì, 27 ottobre 2009

Giuseppe Maestri ci ha lasciato



Uno dei post più tristi che potessi fare. Mentre mi trovavo nello storico Borgo San Rocco di Ravenna ho appreso da un manifesto mortuario la triste notizia. Giuseppe Maestri era un'icona, un simbolo, una leggenda vivente dell'arte romagnola, che conobbi nel fatidico anno 1977, quando iniziai a scrivere poesie, a fare teatro, a dipingere e fare incisioni. In quell'anno ero anche tipografo e uno dei nostri clienti era appunto la Galleria "La Bottega", che Maestri aveva creato nel 1965 insieme alla moglie Angelina Tienghi, sorella di Ugo, pittore e mio professore di disegno nonchè grande amico del mitico Osvaldo Cavandoli (ideatore della "Linea" che spopolò su "Carosello" per molti anni), e ad Alberto Martini. Era nato nel 1929 a Sant'Alberto, grosso centro a ridosso della foce del Reno e che il grande Cesare Zavattini ebbe a definire come il "tipico villaggio della Pianura Padana". Questo paese dette i natali, nell'800, al grande Olindo Guerrini (detto Stecchetti), grandissimo poeta e umorista stimatissimo da Carducci, Pascoli e D'Annunzio, e a Francesco Talanti, traduttore di varie parti della Divina Commedia in dialetto romagnolo santalbertese, nonchè poliglotta, giramondo, matematico e scienziato illustre. Di "Gepi" ho ricordi stupendi e tenerissimi. Da buon romagnolo era uno spirito libero, anarcoide, di buon cuore e sempre attento e curioso a tutto. Non l'ho mai visto arrabbiato una sola volta, aveva sempre il sorriso stampato in volto e un tono di voce suadente e rassicurante. Da buon anarcoide non amava questo mondo (Ste mundazz brott, questo mondaccio brutto, soleva dire), e non pretese nulla, anche se diede tantissimo. Per decenni la sua galleria è stato IL crocevia romagnolo di alcuni dei più grandi artisti del 900 europeo. Ne cito solo alcuni: Mario Luzi, Rafael Alberti, Piero Santi, Aligi Sassu, Andrea Zanzotto, Tonino Guerra (che grazie alla moglie georgiana lo ha fatto conoscere anche in Russia), Renato Guttuso. Perchè Maestri oltre che organizzatore di eventi era anche un grandissimo incisore. Negli anni 90 pubblicò una mirabolante produzione di pregevoli incisioni a colori per "una Ravenna sognata", in cui gli elementi onirici (e qui l'influenza di Federico Fellini mutuata da Tonino Guerra era evidentissima), si sposavano in modo mirabile agli elementi architettonici delle basiliche bizantine e dei palazzi degli antichi Imperatori barbarici che ivi risiedettero. Negli ultimi anni veniva chiamato spesso a serate nei circoli e nei teatri in cui dava voce al suo conterraneo Stecchetti, leggendo le licenziose "Rime di Argia Sbolenfi" e gli arguti "Sonetti Romagnoli", che hanno reso immortale Guerrini. Qualche anno fa passando davanti alla sua Bottega dove era intento a stampare alcune delle sue creazioni, ebbi l'intuizione di entrare con la mia piccola Canon digitale e lo intervistai, filmando anche le tante foto degli anni 60 in bianco e nero in cui veniva ritratto insieme ai tanti artisti da lui ospitati in Galleria. Un documento ora preziosissimo, che proprio in questo periodo stavo pensando di integrare ad un'altra intervista fatta al grande poeta ravennate EUGENIO VITALI (ora 75enne), per ricavarne un lungometraggio che potesse salvare la memoria di questi due grandi artisti che hanno dato lustro a Ravenna. Difficile ora pensare che non lo rivedrò più, che il suo sorriso dolce e bonario si è spento per sempre, che non valicherò più quel locale, vedendolo intento al torchio, con lui che mi saluta dicendomi "Uei, tabacazz, coma steet? Cuss'et faat?" (Ciao, ragazzaccio, come stai? Cos'hai combinato?). Data l'età potrei dire che ho perso un padre, ma preferisco dire che ho perso un fratello. Dopo la morte di Edgardo Siroli, Stecchetti ha perso il suo più autentico cantore, e la Romagna un pezzo consistente della sua anima più vera e segreta. Pubblico una breve intervista non per allungare il brodo, ma perchè rivedere le sue parole un pò mi fa bene. Inutile dire che sono straziato. Anche perchè in un qualsiasi Paese europeo di uno come lui si sarebbero occupati TV e giornali nazionali, mentre qui è stato già difficile trovare qualcosa sui quotidiani locali e sul web. Che schifo.
La Bottega, nata con entusiasmo nella Ravenna di oltre 40 anni fa da un’idea di Alberto Martini, condirettore della mitica collana Fabbri I maestri del colore, non fu solo una galleria importante per la città aprendola al panorama artistico nazionale di allora, cosa di cui beneficiarono anche gli artisti locali, ma insieme divenne luogo di incontro e scontro del fare arte, tra artisti diversi e valenti, talvolta con discussioni accese, polemiche, talaltra con condivisione di ideali, ma sempre con circolo e scambio continuo di idee. Era un luogo fresco per la mente e le mani di tante creatività.
Si cominciò con l’esposizione di Aligi Sassu. A seguire e con coraggio nella Ravenna rossa dell’epoca, ma pensando solo al dato artistico, le retrospettive su Carrà e soprattutto Sironi, in cui intervennero i figli degli artisti scomparsi da poco tempo. Poi, tra gli altri, Treccani, Guttuso, Calabria, Moreni, Giò Pomodoro, oltre ai locali Ruffini, Guberti, Folli, Giangrandi, nonché alle visite prolifiche dei maestri del Gruppo mosaicisti di scuola ravennate, che allora aveva sede nello stesso quartiere.
La scomparsa o la mutazione in tempi recenti di questi luoghi frequentati dagli artisti (non so, penso a ciò che doveva essere nei medesimi anni ’50/’60 il Bar Giamaica di Milano, anche dal racconto che me ne fece l’artista bergamasco Rino Carrara), ovvero spazi condivisi, che non siano solo vernici in gallerie asettiche e griffate, è una delle cose più tristi degli ultimi anni: anche l’ambito artistico ha ceduto all’isolamento forzato che sembra aver conquistato la società, frammentando tante identità, insterilendole talvolta in soliloqui privi del beneficio della discussione.
Preoccupazioni queste, comuni ad artisti differenti anche per età, come ho potuto constatare in conversazioni recenti con Claudio Olivieri e Francesco Bocchini.
Olivieri fa ancora parte di quella generazione che si impegnava con pamphlet e scritti salati se necessario, proprio come Mattia Moreni, uno dei protagonisti della Bottega, come racconta Maestri, che ne curò tutte le 5 o 6 serie di incisioni, come spesso faceva con molti degli artisti ospitati.
Moreni, si sa, non aveva carattere facile, ma a differenza di numerosi dibattiti feroci con tanti artisti, nutriva un rispetto sincero e profondo per Giuseppe Maestri, a cominciare dal suo mestiere antico, oltre alla sua abilità innegabile, come del resto, da sempre testimoniano la stima e l’affetto di Raffaele De Grada per la sua opera.
Persino all’ultima antologica di Maestri lo scorso Maggio (L’onirica navigazione, Chiesa del Pio Suffragio, Bagnacavallo -Ra-), il grande critico, ormai novantenne, ha voluto essere presente e omaggiare l’amico mai dimenticato.
E con ragione, dato che Giuseppe Maestri, anche se non lo ammetterà mai, oltre che maestro d’arte lo è anche di vita, per la sua generosità, l’affabilità e la non comune perizia tecnica, caratteristiche inscindibili, come, senza volere, mi ha dimostrato: fluiva il discorso su tante vicende della Bottega e oltre, sui segreti delle tecniche incisorie che Maestri conosce come pochi per averle frequentate tutte, su Marco Dente incisore ravennate nella Roma del primo ‘500, sulle finezze nelle pitture e soprattutto nelle incisioni di Dürer, apprese a sua volta grazie al bulino e all’arte orafa del padre, mentre con estrema naturalezza e semplicità, col suo inconfondibile sorriso, Maestri continuava a lavorare al torchio.
D: In queste pitture ed incisioni, hai saputo inventare un mondo di sogno, una Ravenna che non c’è, eppure potrebbe essere, dietro alle stesse case e monumenti che sono quotidianamente sotto i nostri occhi forse un po’distratti o abituati. E’ come se ne avessi colto, con poesia, il fantasma buono, niente a che fare con gli incubi, anzi: penso ai tuoi blu notte, alle porte, muri, finestre coloratissimi, al Mausoleo di Teoderico che lascia l’imponenza della pietra e viene da te trasformato, magia vera, nella tenda d’assedio del re mossa dal vento. E ancora file di case, non c’è direzione unica in questo mondo, sopra e sotto eventuali orizzonti, tutto resta sospeso, incantato…
R: E’ una Ravenna fantastica, è vero, che sta sulle dune...sono racconti per immagini, perché talvolta attraverso le immagini le cose si spiegano meglio. Ma è un mondo interno che viene fuori, poi, certo, può ricordare qualcosa di quello esterno, ma non la storia ufficiale, troppo difficile, a parte giusto un riferimento all’assedio di Ravenna, che in effetti ci fu e per ben tre anni ad opera del re Teodorico: solo che ho immaginato la tenda che terminava con la cupola del Mausoleo… I colori illuminano i miei lavori, come quelli dei bambini, si potrebbe dire che non sono mai maturato...pensa che un artista giovane con cui ho collaborato di recente, Nicola Samorì, guardando le mie cose, ha detto che davvero gli sono sembrato più giovane di lui! Ma i colori sono anche una forma di protesta personale: perché arrendersi al grigiore del mondo?
D: Ho notato che da queste visioni di città sono pressoché assenti le figure umane: sono le architetture le protagoniste animate, fluttuanti, a galleggiare sospese su “acquecielo”, come le isole della Ravenna antica, dove però coesistono più lune insieme, mezze o piene, anch’esse appese a fili invisibili, galleggianti in “cielimare” con pesci a posto delle stelle e vele, vele di barche e case come vele...
R: Già, sarà perché sono nato vicino ad un fiume, a Sant’Alberto e vedevo sempre le barche: in fondo le navi sono un simbolo, di arrivo e partenze. Ravenna e Bisanzio poi erano due importanti porti antichi, collegati tra loro e i bordi di certe incisioni, come vedi, sono decorati un po’ all’orientale, con figure varie, galleggianti… Poi sarà che nella Bottega in tanti anni ho conosciuto tanti “matti”, che forse un po’ di quella follia l’ho ereditata anch’io...
D: E tecnicamente?
R: Per me l’incisione è un linguaggio legato sia alla pittura che alla scultura. Le mie incisioni non sono proprio ortodosse, alla Morandi, per fare un esempio: sono miste, non si tratta solo di preparare la lastra e disegnarla: in queste acquetinte, ceremolli, c’è il colore, per me importante, e la casualità che gioca nel contesto di preparazione del lavoro. Poi il risultato può piacermi e avvicinarsi o meno a ciò che voglio, ma, ed ecco il paradosso, nel momento in cui si accetta il caso a cooperare, non c’è più l’elemento casuale…
D: So che La Bottega è stata frequentata anche da poeti importanti come Luzi, Zanzotto, Guerra soprattutto, con cui spesso hai collaborato e tuttora, ritraducendo con approvazione, componimenti dal suo al tuo dialetto, il santalbertese. Del resto, come si diceva una volta, sei anche un fine dicitore di versi, specie in dialetto, cosa che ti ha portato, talvolta collaborando con l’attore Marescotti o in recital solistici, a far conoscere Tonino Guerra appunto, Nino Pedretti, Raffaello Baldini, ultimamente Nevio Spadoni, oltre al classico di sempre, Olindo Guerrini/Lorenzo Stecchetti e molti altri anche in italiano, non escluso Dante.
R: Sai, il rapporto con la parola e la poesia per me è sempre stato importante, specie con la lingua del dialetto: è la mia lingua madre, quella con cui penso, quella con cui la mia generazione è cresciuta, la lingua di un mondo che voi ragazzi, potete capire ma non sentire fino in fondo. Ecco queste parole hanno un colore, che non può essere capito fino in fondo.

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