sabato 28 aprile 2012

Romagna solatia, Romagna felix



Una piccola ma esilarante selezione di cortometraggi di autori romagnoli, prodotti fra il 2000 e il 2005. In questi spezzoni troverete l'anima autentica della Romagna, ma anche la modernità espressa nelle sue forme più varie. Il tutto non poteva che iniziare con la poesia "Romagna solatia, dolce Paese" di Giovanni Pascoli, di cui quest'anno si ricorda il centenario della scomparsa. La lettura è affidata a Francesca Quercioli, attrice della Compagnia Fuori Scena di Cesena, che nel 2007 produsse appunto un bel CD coi migliori testi di Pascoli e Carducci. Buon divertimento.





lunedì 23 aprile 2012

Il cestino delle mele



Una testimonianza dalla vicina Bologna in vista del 25 aprile. Alcuni vecchi partigiani raccontano la Resistenza in città, e in particolare alla "Bolognina", quartiere popolare immediatamente a nord della stazione ferroviaria.


sabato 21 aprile 2012

Hordur Torfason a Ravenna



Attore e cantautore 66enne islandese, Hordur Torfason è da sempre attivo nei movimenti per i diritti civili. Gay dichiarato fino dagli anni 60, quando in Islanda dichiararsi gay era pericolosissimo, subì un pesante ostracismo (e persino un attentato) che gli precluse ogni possibilità di lavoro nel mondo dello spettacolo in Islanda, mentre era al massimo della popolarità. Emigrò a Copenaghen, dove rimase una decina d'anni. Rientrato in Patria, risalì faticosamente la china e fondò la prima associazione nel suo Paese per il riconoscimento dei diritti civili agli omosessuali, che avverrà a metà anni 90. Il Paese ha subìto un pesante tracollo finanziario nel 2008, e Hordur ha ripreso a lottare per far sì che la popolazione non subisse le conseguenze degli errori dei banchieri e la corruzione dei politici. Dopo settimane di proteste non violente, il governo (di centrodestra) è caduto ed è stato indetto un referendum popolare, in cui si chiedeva agli islandesi se erano disposti a sopportare 1200 euro di tasse a testa per 15 anni di fila, per ripagare le banche inglesi e olandesi, detentrici del debito. Ebbene, il 93 per 100 della popolazione (320000 abitanti) ha detto no. In seguito sono state selezionate 25 persone fuori assolutamente da ogni Partito allo scopo di riscrivere la Costituzione, dato che quella in vigore era quella danese (l'Islanda ne è stata una colonia fino al 1944) e risaliva al 1873. Ora queste persone stanno mettendo giù piano piano i vari articoli costituzionali, e tutta la popolazione via internet è chiamata a collaborare e a modificarne gli eventuali errori di forma o di contenuto. Un esempio di democrazia diretta che sta facendo scuola. Torfason ha fatto tappa a Ravenna, in una serata organizzata dal Movimento 5 Stelle, e questa è una piccola parte (purtroppo) del suo intervento, durato circa un'ora e mezzo.




domenica 15 aprile 2012

La battaglia di Ravenna - Pasqua 1512, 11 aprile



Sorse l'alba dell'11 aprile 1512. Il sole era rosso fuoco, ma molto più rosso sarà il campo di battaglia verso sera. Lo scontro iniziò verso le otto e terminò dopo le 16. Le armi usate erano: picche, lance, frecce, mazze, spade, e armi da fuoco quali serpentine, falconetti, falconi, colubrine, archibugi, scoppietti e infine artiglierie leggere e pesanti. Davanti alla trincea gli spagnoli avevano piazzato le cinquanta carrette armate che verranno messe fuori combattimento ben presto dall'artiglieria ferrarese. Il copione delle battaglie dell'epoca prevedeva una lunga fase di schieramento, che ricorda un pò gli apprestamenti del gioco del "Risiko", e poi si cominciava con tiri di artiglieria per saggiare la consistenza della controparte. Andò così anche a Ravenna. Terminato il lungo posizionamento, i contendenti si trovarono faccia a faccia ad una distanza di circa 3-400 metri, con il fosso e l'argine di terra in mezzo. Non essendo ancora state inventate le divise, unico segno di riconoscimento era una croce bianca per i francesi e una rossa per quelli della Lega. L'artiglieria spagnola, numericamente inferiore, cominciò a tirare ad alzo zero, creando i primi vuoti tra i francesi. Aveva però il difetto di essere fissa sul posto, lenta come cadenza di tiri, e con i colpi che cadevano quindi nello stesso punto. Nel contempo l'artiglieria franco-ferrarese doveva necessariamente alzare il tiro per superare l'argine, e sorvolava quindi i fanti che erano rannicchiati, andando a colpire dietro, e cioè la cavalleria leggera. Passarono così le prime due ore. Per capirci di più, una colubrina da 15 libbre, con tiro a parabola arrivava a un chilometro circa, un falconetto da 1 libbra a circa 300 metri, un archibugio era letale fino a 100 metri, mentre gli arcieri arrivavano a 100 metri con un tiro teso e a 250 con un tiro a parabola. Le balestre, più potenti, arrivavano a 400 metri, ma avevano una potenza di fuoco chiaramente inferiore. C'è poi da dire che il tiro del cannone a palla piena (usato per lo più per demolire le mura) creava sì dei danni alla fanteria, ma mai come il tiro a mitraglia, che spargeva pezzi ad ampio raggio, anche se con una gittata di quasi della metà. Dopo due ore, si diceva, per poter controbattere meglio il fuoco spagnolo, Ivo D'Allegri suggerì a Gaston De Foix di spostare un cannone e una colubrina verso il varco della trincea, nelle vicinanze dell'argine del Ronco, dirigendo i tiri sull'avanguardia della cavalleria di Fabrizio Colonna. In questo modo trecento cavalieri furono uccisi, addirittura trentatrè in un colpo solo. La situazione si aggravò con la decisione del Duca Alfonso che fece ritirare dalla prima linea alcune bocche da fuoco facendole portare sul fianco destro della Lega e cominciando a colpire i carriaggi a protezione della truppa e poi la truppa stessa. Gli spagnoli si trovarono quindi a essere colpiti da due lati, ma il comandante Cardona non fece uscire le truppe, fiducioso nel suo "piano", come invece consigliava Colonna, fino a che, senza informare quest'ultimo, diede alla retroguardia il segnale d'attacco. Questa era composta dagli squadroni, già duramente provati, del Carvajal, dell'Avalos e del Marchese della Palude, ma l'impeto della cavalleria francese fu tale che vennero sbaragliati in breve tempo. A questo punto Fabrizio Colonna ordinò il via libera alla cavalleria pesante, passando per il famoso varco, di attaccare la cavalleria ferrarese, ma anche questo tentativo fallì. Colonna stesso fu fatto prigioniero da Alfonso d'Este. Gli assalti sul fianco destro della fanteria e della cavalleria francese, seguiti dall'apparizione alle spalle dalla cavalleria leggera di De Foix, provocarono lo scompiglio fra gli spagnoli. Al comandante, il vicerè Ramon de Cardona, fu abbattuto il cavallo, e lui, preso dalla paura, scappò codardamente a piedi verso sud, fermandosi addirittura solo a Rimini. A questo punto Pedro Navarro fu obbligato a dar via libera alla fanteria, ormai l'ultima carta da giocare. Un grido terrificante si alzò dalle schiere italo-spagnole, che saltarono il fosso e si avventarono contro i mercenari lanzichenecchi con una ferocia belluina. L'impatto fu talmente violento che le picche si incastrarono fra di loro, e allora gli astuti spagnoli scivolarono sotto ai tedeschi pugnalandogli il basso ventre e squarciandogli lo stomaco. Morirono così il comandante tedesco Kaspar Empser e suo fratello Jacob. La spinta spagnola arrivò fino all'argine del Ronco dove venne a contatto coi Guasconi, che ressero l'urto fino a chè venne a dar loro man forte Ivo D'Allegri con il suo corpo a cavallo, che riequilibrò lo scontro. Senonchè l'entrata in campo dei rinforzi capitanati da Juan Samenego mise in fuga i Guasconi. Gli italiani, però, stanchi e decimati, ripiegarono, venendo di nuovo a contatto coi tedeschi. Il germe della paura cominciò a serpeggiare nelle file della Lega, il cui schieramento cominciò a ondeggiare, mentre la cavalleria leggera francese cominciò una morsa a tenaglia sul campo, aiutata da quella pesante e dalla fanterìa. Molti comandanti coi loro drappelli pensarono così di darsi alla fuga, nel frattempo l'urto finale della cavalleria francese ebbe finalmente ragione delle ormai sfinite schiere avversarie. Circa tremila spagnoli, stanchi, privi di cavalleria, provati e premuti da tre lati, serrarono i ranghi e ripiegarono ordinatamente lungo la golena del Ronco, ultima via libera per loro, in direzione di Forlì. Non potendo permettere che la truppa spagnola potesse ritirarsi indisturbata, Gaston De Foix, benchè sconsigliato dai suoi, gli corse dietro insieme ad alcuni altri, ma alla fine fu accerchiato, sbalzato da cavallo e finito a colpi di lance, pietre e bastoni, come un cane, finendo poi, già morto, buttato nel fiume. Recuperato in seguito il suo cadavere, gli venne asportato il cuore, che fu messo in una cassettina e rimandato in Francia, mentre il giovedì 15 furono tenute esequie solenni presso San Petronio in Bologna. Le notizie, di qui in poi, sono frammentarie. L'armata italo-spagnola si disperse in un arco che va da Forlì a Cervia, a Cesena, e fino a Rimini. Alcuni arrivarono addirittura ad Ancona, camminando giorno e notte, coi cavalli che morivano di fame, e col pericolo delle bande di briganti che li assalivano in cerca di bottino. Le "vivandiere", circa 1500, scapparono in massa a Bologna, facendo perdere poi ogni traccia. In quanto a Ramon de Cardona, la sua fuga proseguì fino a Pesaro, dove si mise sotto la protezione di Giovanni Sforza. Quante furono le vittime? Guicciardini parla di 10000 morti, altri storici vanno da una valutazione di 5-8000 fino a 20000. Quello che è certo è che fu un numero spaventoso per l'epoca, in pratica un risultato da bomba atomica moderno, ove si consideri che Ravenna all'epoca ne contava 28000, e che a causa della battaglia ne vedrà morire di suo oltre (e altri)  3000. Ma andiamo per gradi. La sera stessa le artiglierie franco-ferraresi ripresero a battere le mura nei punti già colpiti due giorni prima. Il bombardamento durò una notte. Verso le due quattro inviati dal Senato ravennate andarono al quartier generale francese a trattare la resa della città. Le trattative furono condotte, però, all'insaputa di Marcantonio Colonna (che era parente del Papa, avendo sposato Lucrezia Della Rovere), e prevedevano la resa e la salvaguardia della città in cambio della fornitura di vettovaglie agli affamati vincitori, la conferma dei privilegi accordati alla città da Giulio II, e la conditio sine qua non che in città entrassero solo ferraresi e mantovani. Fu un'ingenuità che costò molto cara. Colonna, fiutando la tempesta, si ritirò nella cittadella fortificata, la Rocca Brancaleone, costruita dai veneziani 60 anni prima e, purtroppo per lui, danneggiata nell'assedio del 1509 che riportò Ravenna in mano Papalina. Durante la notte  ci furono le prime avvisaglie: bande di guasconi e lanzichenecchi attaccarono la Basilica e il convento di Classe, uccidendo il Priore e alcuni monaci, e derubando la Chiesa e il convento. La mattina dopo, invece, entrarono nella città attraverso la breccia. Alcuni parroci, ignari dell'accordo, fecero suonare le campane a distesa, chiamando alle armi i ravennati che dapprima riuscirono a respingere gli invasori. Infine, però, duemila tra francesi e ferraresi, spinti dalla fame, ebbero la meglio ed entrarono nel centro città, iniziando un atroce e cruento saccheggio che si protrasse per ore. Gli invasori violarono le case, le chiese, i conventi, uccisero senza pietà donne, vecchi, bambini, preti, frati, suore. Diedero alle fiamme molte case e anche alcune Chiese, prendendo in ostaggio anche parecchie persone allo scopo di avere un riscatto in moneta,  e usando spesso la tortura per farsi rivelare dove avevano nascosto il denaro. Solo dopo alcune ore i comandanti tentarono di porre un freno. La Palisse diede ordine di passare a fil di spada i saccheggiatori dei monasteri. Purtroppo ai ladri forestieri si aggiunsero anche i ladri locali, che chiaramente approfittarono della situazione. Nel frattempo le artiglierie avevano ripreso a sparare contro la cittadella. Marcantonio Colonna si arrese il 15 aprile, anche lui affamato e stanco. Lo stesso giorno l'esercito dei collegati alla Francia, lasciarono la città, ripiegando verso la base di partenza. Con i restauri del 1822 alla casa di Guidarello Guidarelli, poi demolita nel 1934, fu cancellata l'ultima testimonianza tangibile del sacco. Sulla sua facciata, infatti, erano ancora visibili i segni delle archibugiate dei francesi. Nella circostanza si comportò molto bene il Duca D'Este, che raccolse presso il suo padiglione molte donne e bambini, e pure una pisside contenente ostie consacrate, che il parroco di S. Giovanni Battista riuscì a farsi ridare da un giovane lanzichenecco, che non osò, per sua fortuna, reagire. Al sacco seguì poi una terribile pestilenza, derivata anche dalle migliaia di cadaveri fuori dalla città che nessuno era riuscito a seppellire in tempo. Il poeta Ludovico Ariosto, testimone oculare al seguito del Duca Alfonso, dice che il campo era talmente pieno di caduti (senza contare anche i poveri cavalli), che per vari chilometri non c'era modo di camminare in uno spazio anche piccolissimo. La città non si risolleverà. Il Duca Alfonso si pentì di aver fatto guerra a Giulio II e uscì dall'Alleanza. Contro i Francesi vennero mossi dal Pontefice anche Svizzeri e Veneziani. Ricacciati dal Veneto, risalirono verso Pavia e da lì se ne ritornarono in gran fretta in Patria. Vinta una battaglia, persa una guerra, è il caso di dire. In quanto al Papa, l'anno dopo fu colpito da dissenteria e morì, a settant'anni d'età. Nei dieci passati da Pontefice aveva passato forse più tempo a muovere guerre che a recitare Messe, causando la morte di decine e decine di migliaia di persone. Il Papa che lo seguì accordò alla città l'esenzione fiscale per 15 anni, da tanto ch'era rovinata, e si parla complessivamente di 15000 scudi d'oro, una cifra enorme per l'epoca. Anche i contadini, che nel Medioevo in pratica mantenevano i mercenari, ebbero un'esenzione, ma solo per tre anni. E nel raggio di venticinque, tutti i protagonisti e i comprimari dell'evento morirono, e quasi tutti di morte violenta. Nel 1557 Pietro Donato Cesi, Legato Pontificio per l'Emilia, fece erigere sull'argine del Ronco, nel punto esatto dove Gaston De Foix fu colpito, una colonna di marmo d'Istria a ricordo del terribile evento, monumento tutt'ora esistente e recentemente restaurato in occasione del 500esimo della battaglia. Ancora oggi la zona adiacente la colonna, verso Sud, è aperta campagna, e ancora oggi il metal detector segnala resti metallici ad una certa profondità. Questo è, appunto, il territorio chiamato la "Tomba dei Galli" e, sebbene sembri a tutta prima una qualsiasi zona di campagna, possiede in effetti un fascino sinistro. La battaglia di Ravenna divenne un "must" del Medioevo, grazie anche alla presenza del Bojardo, il cosiddetto "Cavaliere senza macchia e senza paura". Lo studioso Giancarlo Schizzerotto ritrovò negli anni 70 del secolo scorso ben otto poemetti in volgare in Italia e uno in Francia. Particolare fortuna ebbe il poema in versi epici di tale Giannotto, milite romano sotto le insegne di Troylo Savelli, romano pure lui. L'invenzione della stampa a caratteri mobili, risalente a pochi decenni prima, ne amplificò la portata, anzi, questo evento fece sì che si ideassero i primi tascabili a poco prezzo per tutti. In pratica attori e oratori catalizzavano l'attenzione del popolo nelle piazze leggendo da foglietti volanti le gesta della battaglia, dopodichè i foglietti venivano ceduti a prezzi popolari. Insomma, concludendo, la battaglia di Ravenna segna la fine di un mondo e l'inizio di un altro, nel bene e nel male, ma su di una cosa si è certi di non sbagliare: la guerra è sempre una cosa odiosa e incivile, e a farne le spese sono sempre i comuni cittadini.

Nella foto sopra la Colonna dei Francesi, mentre nell'altra una delle zone interessate dalla battaglia.

lunedì 9 aprile 2012

Pasqua 1512, la battaglia di Ravenna, contesto storico e antefatti



Una delle battaglie più sanguinose di tutti i tempi. Anche questo fu un effetto della "globalizzazione", sia pure in modo indiretto, in quanto la conquista dell'America stava ridisegnando nuovi equilibri e nuove potenze all'interno dell'Europa. Anche allora la potenza del soldo, e dei commerci, era esiziale nel contesto umano e sociale. Nel 1503 muore Alessandro VI, il Papa della famiglia Borgia, e dopo un solo mese muore anche il successore Pio III. Viene quindi elevato al Soglio Pontificio Giulio II, della potentissima famiglia romana Della Rovere (sarà quello che inizierà l'edificazione della odierna basilica di San Pietro), che riprende subito i programmi bellici del Borgia. Nel 1506 iniziò il recupero dei territori romagnoli caduti in mano veneziana, di Bologna, ritornata ai Bentivoglio, di Pesaro, ritornata agli Sforza, e di Perugia, di nuovo in mano ai Baglioni. Grazie all'alleanza col Re "cattolicissimo" di Francia Luigi XII, prese senza combattere Perugia, e poi cinse d'assedio Bologna, che cadrà l'11 novembre 1506. Nel 1508 Giulio II strinse ulteriori alleanze per ridurre ulteriormente la potenza di Venezia. Il tutto si concretizzò il 10 dicembre 1508 a Cambrai, in Francia, dove oltre al padrone di casa aderirono l'Imperatore Massimiliano d'Asburgo, il Re di Napoli Ferdinando II e il Duca di Ferrara Alfonso d'Este. Il 14 maggio del 1509 le truppe alleate travolsero i Veneziani ad Agnadello, tra Brescia e Verona, e la Serenissima dovette abbandonare Lombardia, Romagna e i suoi possedimenti in Puglia. Il 22 dicembre di quell'anno, inoltre, una flotta di barconi veneziani che cercava di risalire il Po, venne intercettata a Polesella di Rovigo dalle batterie ferraresi e colata a picco quasi per intero. Venezia, allora, cercò una via d'uscita attraverso la diplomazia. Cedendo i territori romagnoli e pugliesi, disgregò l'alleanza, e indusse Giulio II a revocare la scomunica data a Venezia, in quanto resosi conto della sempre più ingombrante presenza dei Francesi. Nel frattempo si aprì un contenzioso fra la "Santa" Sede e il Duca di Ferrara, partendo dal fatto che il Duca voleva riaprire le saline di Comacchio che poi avrebbero fatto concorrenza a quelle di Cervia. In realtà la posta in gioco era ben più alta: lo stato di Ferrara si delimitava a forma di mezzaluna fra Emilia e Toscana, partendo dall'Adriatico e terminando sulle coste della Versilia, passando attraverso le ricche città di Modena e Reggio Emilia, intercettando così (e tassando) i commerci fra Nord e Centro Italia. Nell'agosto 1510 il Duca di Ferrara viene scomunicato e dichiarato decaduto da tutti i suoi feudi avuti in vicariato dalla Chiesa. Ciò provoca l'immediata reazione della Francia, che si schiera con Ferrara. Le truppe del Papa entrano nella Romandiola (la Romagna Estense) ed espugnano il castello di Lugo all'alba del 20 agosto 1510, quindi avanzano verso l'attuale confine fra le province di Ravenna e Ferrara, raggiungendo la Bastìa del Zaniolo, presso Lavezzola, punto strategico sul Po di Primaro (l'attuale Reno), che verrà conquistata al terzo assalto. Ma il Duca Alfonso riprenderà tutto entro il maggio successivo.

La partita viene giocata anche sul piano politico. Nel tentativo di screditare Luigi XII, Giulio II radunerà a Tours un sinodo di vescovi francesi che decideranno l'apertura di un Concilio scismatico a Pisa, in settembre, poi spostato a Milano, e infine a Lione, dove verrà sciolto nel giugno 1512. Lo sviluppo della guerra, che non favoriva le forze pontificie, indusse il Papa a costituire una nuova alleanza, la cosidetta Lega "Santa", l'8 ottobre 1511 a Roma, e comprendente la Repubblica di Venezia, la Spagna, la Svizzera e l'Inghilterra. Dall'altra parte la Francia, i Ducati di Ferrara e di Mantova, la Repubblica di Firenze e Bologna. Il Re Luigi XII invia una forte armata guidata dal nipote, il ventitreenne Duca di Nemours, Gaston de Foix, soprannominato il "fulmine d'Italia", che troverà la morte a Ravenna insieme al fior fiore dell'aristocrazia europea. Il 23 maggio 1511 Gian Giacomo Trivulzio, comandante delle truppe francesi, entrò in Bologna, grazie all'azione sostenuta da elementi filobentivoglieschi. Il legato pontificio Francesco Alidosi fuggì a Ravenna, dove venne accusato di viltà e tradimento. Il Cardinale non seppe far altro che incolpare Francesco Della Rovere, ventenne Duca d'Urbino e nipote del Papa, il quale, venutolo a sapere, lo pugnalò in strada, uccidendolo. Il nipote del Papa, del resto, non entrò in lizza adducendo la precarietà del suo Dominio e l'impreparazione delle sue truppe. Certo è che tra i suoi militi e quelli della Lega "Santa" non correva buon sangue, tanto che a Cesena ne ammazzarono una ventina nel gennaio successivo. L'esercito del Papa è quindi costretto a lasciare i dintorni di Bologna. Nel gennaio 1512 l'esercito spagnolo entra nella Romandiola e punta verso Bologna, che però resiste. In soccorso, arriva da Milano il grosso dell'esercito francese, comandato da Gaston de Foix, che prima espugna Mirandola e poi sblocca la situazione a Bologna. Nel frattempo Brescia si ribella e chiede l'aiuto veneziano, ma Gaston De Foix in pochi giorni con 12000 uomini si porta a Brescia a riprendere la città ribelle. De Foix riunisce quindi l'esercito nelle campagne fra Reggio, Modena e Bologna. Gli estensi, dal canto loro, muovono verso Conselice, Massalombarda, Lugo e Bagnacavallo, stringendo in una morsa gli spagnoli, che sono costretti a ripiegare lungo la Via Emilia verso Imola, Castelbolognese e Faenza. Il comandante spagnolo, il vicerè di Napoli Ramon de Cardona, intuito il piano avversario e messo a conoscenza della possibile resa di Ravenna ai francesi, invia il condottiero Marcantonio Colonna verso la città con una forte truppa al seguito. A Ravenna già stavano 1000 fanti spagnoli e 100 cavalli, pertanto Colonna lascia 400 fanti a presidio del castello di Russi, importante nodo stradale fra Ravenna, Faenza e Bagnacavallo. Nel frattempo, mentre il Cardona attende un rinforzo di mercenari svizzeri, giunge notizia della defezione dell'Imperatore d'Austria dall'alleanza con la Francia. Per tale motivo De Foix riceve l'ordine di dare subito battaglia e ritornare poi a Milano per far fronte ad eventuali minacce dalla Svizzera. Si porta quindi verso Ravenna, ultima speranza per trovare sostentamento a un'armata di circa 25000 uomini, e per dare finalmente battaglia. L'esercito francese si riunisce tutto a Bagnacavallo e porta la sua prima onda d'urto contro il castello di Russi, che cade dopo due giorni di inutile resistenza: i Francesi non faranno prigionieri. L'esercito della Lega "Santa", nel frattempo è acquartierato presso Forlì. Il 7 aprile l'esercito francese si disloca nella piana fra Godo e San Marco, sulla riva sinistra del fiume Montone. Il giorno dopo i francesi si avvicinano alla città, dopo aver passato il fiume, nella zona di Porta Adriana. A Porta Adriana avviene un episodio che condizionerà gli eventi del dopo battaglia. Facendo credere che i ravennati volessero arrendersi, il Colonna fa aprire la porta, da cui entrano trecento fanti francesi. Richiusa la porta alle loro spalle, gli spagnoli li assalgono e li massacrano ferocemente, anche per vendicare i loro 400 caduti di Russi. Il 9 aprile le artiglierie ferraresi cominciano a colpire le mura della città fra Porta Gaza e Porta San Mamante, nella zona sud. Il punto viene scelto per via della mancanza di acque in mezzo e per la bassa altezza delle antiche mura romane, già degradate all'epoca. Dopo aver fatto crollare circa venti metri di mura, avviene l'assalto all'arma bianca. I francesi però non fanno i conti con l'abilità bellica del Colonna, che fa installare una colubrina sopra porta Gaza che prende d'infilata gli attaccanti. Dopo tre tentativi i francesi ripegano, lasciando sul campo circa duecento morti. Riguardo ai pezzi in campo, lo storico Guicciardini ci riporta la presenza di 30 bocche da fuoco del Duca d'Este. Gaston De Foix, per evitare ulteriori perdite rimanda l'assalto finale all'11 aprile. Nel frattempo l'armata spagnola si mette in marcia da Forlì, dopo aver udito da lontano il rombo delle artiglierie nemiche all'opera e punta verso Ravenna, ponendo base, nel pomeriggio del 10, presso San Bartolo, a 8 km a sud di Ravenna e nella zona destra del fiume Ronco, che qualche chilometro più a nord si congiunge col Montone. Senza più vie d'uscita, il De Foix manda un'ambasciata al Cardona dicendogli che intende dare battaglia in campo aperto il giorno dopo, giorno di Pasqua, a patto di poter varcare il Ronco senza disturbi. Cardona accetta. Una piccola nota: un esercito di tali proporzioni richiede forti rifornimenti alimentari giornalieri, e all'epoca veniva supportato da centinaia di civili addetti alla bisogna, tra i quali centinaia di donne, impiegate come cuoche, vivandiere e, chiaramente, molto  "altro" ancora. Poi c'erano maniscalchi, genieri, furieri, armieri, medici, addetti al montaggio e smontaggio delle tende, eccetera. Quindi, trovandosi in terre straniere e ostili, il saccheggio e la confisca era prassi comune, a cui seguiva spesso ogni tipo di morbo, in quanto le norme igieniche erano le ultime cose di cui a quei tempi (ma anche oggi!) ci si potesse preoccupare. La situazione logistica è, in questo caso, a netto favore della Lega "Santa", ma il Cardona non ne approfitta. E, anzi, quando si avvede dell'enorme sproporzione di forze che varcano il Ronco, soprattutto a livello di artiglierie, si pente della concessione fatta, e del non aver dato ascolto a Fabrizio Colonna (nipote di Marcantonio), che gli implora di attaccare i nemici proprio in quel momento, in cui sono più vulnerabili. Alfonso d'Este transita per ultimo, con le sue artiglierie, che decideranno le sorti della battaglia. In retroguardia vengono lasciati 400 fanti sotto le mura comandati da Ivo D'Allegri e presso il Montone altri 1000 comandanti da Paris Scotto. Avviene così il dispiegamento, con gli Spagnoli che, durante la notte, operano uno scavo profondo oltre un metro per poi ripararsi dietro la terra di scavo, con un varco da cui poter far uscire la cavalleria. Dietro l'argine le truppe della Lega sistemano le artiglierie grosse, mentre le piccole bocche da fuoco sono alloggiate in cinquanta carrette falcate davanti al "trincerone". Questo gruppo di carrette fa parte di uno stratagemma ideato da Piietro Navarro, al cui uso addestra 5000 fanti. Già nella battaglia di Cerignola gli spagnola avevano sperimentato con successo una simile tattica. Chiaramente cinquecento anni di tempo hanno cancellato ogni tipo di traccia residuale di tale fortificazione, che doveva essere lunga all'incirca un chilometro, anche se la zona ancora oggi è chiamata sinistramente "Tomba dei Galli". In questo ristretto spazio di circa un chilometro e mezzo quadro, l'11 aprile 1512 si decide la sorte di oltre trentamila vite umane. Sono presenti vari personaggi destinati alla Storia, tra i quali il comandante La Palisse, famoso forse più per i suoi motteggi che per le virtù militari, o il capitano di ventura Ettore Fieramosca, che vinse nel 1503 la famosa disfida di Barletta contro i Francesi insieme ad altri dodici cavalieri italiani, due dei quali sono con lui a Ravenna. Un segno infausto apre la giornata: "Le soleil se levait très rouge" (J. MICHELET, Histoire de France, pag. 267). I potenti dell'epoca governavano per grazia di Dio, e con il consulto degli astrologi. Tutta la vita di corte era condizionata dai sogni, dalle premonizioni e dai segni, non esistendo allora, e fino al 700, distinzione alcuna fra astronomia e astrologia. Il tempo dello scontro finale si stava quindi definitivamente compiendo.