domenica 15 aprile 2012

La battaglia di Ravenna - Pasqua 1512, 11 aprile



Sorse l'alba dell'11 aprile 1512. Il sole era rosso fuoco, ma molto più rosso sarà il campo di battaglia verso sera. Lo scontro iniziò verso le otto e terminò dopo le 16. Le armi usate erano: picche, lance, frecce, mazze, spade, e armi da fuoco quali serpentine, falconetti, falconi, colubrine, archibugi, scoppietti e infine artiglierie leggere e pesanti. Davanti alla trincea gli spagnoli avevano piazzato le cinquanta carrette armate che verranno messe fuori combattimento ben presto dall'artiglieria ferrarese. Il copione delle battaglie dell'epoca prevedeva una lunga fase di schieramento, che ricorda un pò gli apprestamenti del gioco del "Risiko", e poi si cominciava con tiri di artiglieria per saggiare la consistenza della controparte. Andò così anche a Ravenna. Terminato il lungo posizionamento, i contendenti si trovarono faccia a faccia ad una distanza di circa 3-400 metri, con il fosso e l'argine di terra in mezzo. Non essendo ancora state inventate le divise, unico segno di riconoscimento era una croce bianca per i francesi e una rossa per quelli della Lega. L'artiglieria spagnola, numericamente inferiore, cominciò a tirare ad alzo zero, creando i primi vuoti tra i francesi. Aveva però il difetto di essere fissa sul posto, lenta come cadenza di tiri, e con i colpi che cadevano quindi nello stesso punto. Nel contempo l'artiglieria franco-ferrarese doveva necessariamente alzare il tiro per superare l'argine, e sorvolava quindi i fanti che erano rannicchiati, andando a colpire dietro, e cioè la cavalleria leggera. Passarono così le prime due ore. Per capirci di più, una colubrina da 15 libbre, con tiro a parabola arrivava a un chilometro circa, un falconetto da 1 libbra a circa 300 metri, un archibugio era letale fino a 100 metri, mentre gli arcieri arrivavano a 100 metri con un tiro teso e a 250 con un tiro a parabola. Le balestre, più potenti, arrivavano a 400 metri, ma avevano una potenza di fuoco chiaramente inferiore. C'è poi da dire che il tiro del cannone a palla piena (usato per lo più per demolire le mura) creava sì dei danni alla fanteria, ma mai come il tiro a mitraglia, che spargeva pezzi ad ampio raggio, anche se con una gittata di quasi della metà. Dopo due ore, si diceva, per poter controbattere meglio il fuoco spagnolo, Ivo D'Allegri suggerì a Gaston De Foix di spostare un cannone e una colubrina verso il varco della trincea, nelle vicinanze dell'argine del Ronco, dirigendo i tiri sull'avanguardia della cavalleria di Fabrizio Colonna. In questo modo trecento cavalieri furono uccisi, addirittura trentatrè in un colpo solo. La situazione si aggravò con la decisione del Duca Alfonso che fece ritirare dalla prima linea alcune bocche da fuoco facendole portare sul fianco destro della Lega e cominciando a colpire i carriaggi a protezione della truppa e poi la truppa stessa. Gli spagnoli si trovarono quindi a essere colpiti da due lati, ma il comandante Cardona non fece uscire le truppe, fiducioso nel suo "piano", come invece consigliava Colonna, fino a che, senza informare quest'ultimo, diede alla retroguardia il segnale d'attacco. Questa era composta dagli squadroni, già duramente provati, del Carvajal, dell'Avalos e del Marchese della Palude, ma l'impeto della cavalleria francese fu tale che vennero sbaragliati in breve tempo. A questo punto Fabrizio Colonna ordinò il via libera alla cavalleria pesante, passando per il famoso varco, di attaccare la cavalleria ferrarese, ma anche questo tentativo fallì. Colonna stesso fu fatto prigioniero da Alfonso d'Este. Gli assalti sul fianco destro della fanteria e della cavalleria francese, seguiti dall'apparizione alle spalle dalla cavalleria leggera di De Foix, provocarono lo scompiglio fra gli spagnoli. Al comandante, il vicerè Ramon de Cardona, fu abbattuto il cavallo, e lui, preso dalla paura, scappò codardamente a piedi verso sud, fermandosi addirittura solo a Rimini. A questo punto Pedro Navarro fu obbligato a dar via libera alla fanteria, ormai l'ultima carta da giocare. Un grido terrificante si alzò dalle schiere italo-spagnole, che saltarono il fosso e si avventarono contro i mercenari lanzichenecchi con una ferocia belluina. L'impatto fu talmente violento che le picche si incastrarono fra di loro, e allora gli astuti spagnoli scivolarono sotto ai tedeschi pugnalandogli il basso ventre e squarciandogli lo stomaco. Morirono così il comandante tedesco Kaspar Empser e suo fratello Jacob. La spinta spagnola arrivò fino all'argine del Ronco dove venne a contatto coi Guasconi, che ressero l'urto fino a chè venne a dar loro man forte Ivo D'Allegri con il suo corpo a cavallo, che riequilibrò lo scontro. Senonchè l'entrata in campo dei rinforzi capitanati da Juan Samenego mise in fuga i Guasconi. Gli italiani, però, stanchi e decimati, ripiegarono, venendo di nuovo a contatto coi tedeschi. Il germe della paura cominciò a serpeggiare nelle file della Lega, il cui schieramento cominciò a ondeggiare, mentre la cavalleria leggera francese cominciò una morsa a tenaglia sul campo, aiutata da quella pesante e dalla fanterìa. Molti comandanti coi loro drappelli pensarono così di darsi alla fuga, nel frattempo l'urto finale della cavalleria francese ebbe finalmente ragione delle ormai sfinite schiere avversarie. Circa tremila spagnoli, stanchi, privi di cavalleria, provati e premuti da tre lati, serrarono i ranghi e ripiegarono ordinatamente lungo la golena del Ronco, ultima via libera per loro, in direzione di Forlì. Non potendo permettere che la truppa spagnola potesse ritirarsi indisturbata, Gaston De Foix, benchè sconsigliato dai suoi, gli corse dietro insieme ad alcuni altri, ma alla fine fu accerchiato, sbalzato da cavallo e finito a colpi di lance, pietre e bastoni, come un cane, finendo poi, già morto, buttato nel fiume. Recuperato in seguito il suo cadavere, gli venne asportato il cuore, che fu messo in una cassettina e rimandato in Francia, mentre il giovedì 15 furono tenute esequie solenni presso San Petronio in Bologna. Le notizie, di qui in poi, sono frammentarie. L'armata italo-spagnola si disperse in un arco che va da Forlì a Cervia, a Cesena, e fino a Rimini. Alcuni arrivarono addirittura ad Ancona, camminando giorno e notte, coi cavalli che morivano di fame, e col pericolo delle bande di briganti che li assalivano in cerca di bottino. Le "vivandiere", circa 1500, scapparono in massa a Bologna, facendo perdere poi ogni traccia. In quanto a Ramon de Cardona, la sua fuga proseguì fino a Pesaro, dove si mise sotto la protezione di Giovanni Sforza. Quante furono le vittime? Guicciardini parla di 10000 morti, altri storici vanno da una valutazione di 5-8000 fino a 20000. Quello che è certo è che fu un numero spaventoso per l'epoca, in pratica un risultato da bomba atomica moderno, ove si consideri che Ravenna all'epoca ne contava 28000, e che a causa della battaglia ne vedrà morire di suo oltre (e altri)  3000. Ma andiamo per gradi. La sera stessa le artiglierie franco-ferraresi ripresero a battere le mura nei punti già colpiti due giorni prima. Il bombardamento durò una notte. Verso le due quattro inviati dal Senato ravennate andarono al quartier generale francese a trattare la resa della città. Le trattative furono condotte, però, all'insaputa di Marcantonio Colonna (che era parente del Papa, avendo sposato Lucrezia Della Rovere), e prevedevano la resa e la salvaguardia della città in cambio della fornitura di vettovaglie agli affamati vincitori, la conferma dei privilegi accordati alla città da Giulio II, e la conditio sine qua non che in città entrassero solo ferraresi e mantovani. Fu un'ingenuità che costò molto cara. Colonna, fiutando la tempesta, si ritirò nella cittadella fortificata, la Rocca Brancaleone, costruita dai veneziani 60 anni prima e, purtroppo per lui, danneggiata nell'assedio del 1509 che riportò Ravenna in mano Papalina. Durante la notte  ci furono le prime avvisaglie: bande di guasconi e lanzichenecchi attaccarono la Basilica e il convento di Classe, uccidendo il Priore e alcuni monaci, e derubando la Chiesa e il convento. La mattina dopo, invece, entrarono nella città attraverso la breccia. Alcuni parroci, ignari dell'accordo, fecero suonare le campane a distesa, chiamando alle armi i ravennati che dapprima riuscirono a respingere gli invasori. Infine, però, duemila tra francesi e ferraresi, spinti dalla fame, ebbero la meglio ed entrarono nel centro città, iniziando un atroce e cruento saccheggio che si protrasse per ore. Gli invasori violarono le case, le chiese, i conventi, uccisero senza pietà donne, vecchi, bambini, preti, frati, suore. Diedero alle fiamme molte case e anche alcune Chiese, prendendo in ostaggio anche parecchie persone allo scopo di avere un riscatto in moneta,  e usando spesso la tortura per farsi rivelare dove avevano nascosto il denaro. Solo dopo alcune ore i comandanti tentarono di porre un freno. La Palisse diede ordine di passare a fil di spada i saccheggiatori dei monasteri. Purtroppo ai ladri forestieri si aggiunsero anche i ladri locali, che chiaramente approfittarono della situazione. Nel frattempo le artiglierie avevano ripreso a sparare contro la cittadella. Marcantonio Colonna si arrese il 15 aprile, anche lui affamato e stanco. Lo stesso giorno l'esercito dei collegati alla Francia, lasciarono la città, ripiegando verso la base di partenza. Con i restauri del 1822 alla casa di Guidarello Guidarelli, poi demolita nel 1934, fu cancellata l'ultima testimonianza tangibile del sacco. Sulla sua facciata, infatti, erano ancora visibili i segni delle archibugiate dei francesi. Nella circostanza si comportò molto bene il Duca D'Este, che raccolse presso il suo padiglione molte donne e bambini, e pure una pisside contenente ostie consacrate, che il parroco di S. Giovanni Battista riuscì a farsi ridare da un giovane lanzichenecco, che non osò, per sua fortuna, reagire. Al sacco seguì poi una terribile pestilenza, derivata anche dalle migliaia di cadaveri fuori dalla città che nessuno era riuscito a seppellire in tempo. Il poeta Ludovico Ariosto, testimone oculare al seguito del Duca Alfonso, dice che il campo era talmente pieno di caduti (senza contare anche i poveri cavalli), che per vari chilometri non c'era modo di camminare in uno spazio anche piccolissimo. La città non si risolleverà. Il Duca Alfonso si pentì di aver fatto guerra a Giulio II e uscì dall'Alleanza. Contro i Francesi vennero mossi dal Pontefice anche Svizzeri e Veneziani. Ricacciati dal Veneto, risalirono verso Pavia e da lì se ne ritornarono in gran fretta in Patria. Vinta una battaglia, persa una guerra, è il caso di dire. In quanto al Papa, l'anno dopo fu colpito da dissenteria e morì, a settant'anni d'età. Nei dieci passati da Pontefice aveva passato forse più tempo a muovere guerre che a recitare Messe, causando la morte di decine e decine di migliaia di persone. Il Papa che lo seguì accordò alla città l'esenzione fiscale per 15 anni, da tanto ch'era rovinata, e si parla complessivamente di 15000 scudi d'oro, una cifra enorme per l'epoca. Anche i contadini, che nel Medioevo in pratica mantenevano i mercenari, ebbero un'esenzione, ma solo per tre anni. E nel raggio di venticinque, tutti i protagonisti e i comprimari dell'evento morirono, e quasi tutti di morte violenta. Nel 1557 Pietro Donato Cesi, Legato Pontificio per l'Emilia, fece erigere sull'argine del Ronco, nel punto esatto dove Gaston De Foix fu colpito, una colonna di marmo d'Istria a ricordo del terribile evento, monumento tutt'ora esistente e recentemente restaurato in occasione del 500esimo della battaglia. Ancora oggi la zona adiacente la colonna, verso Sud, è aperta campagna, e ancora oggi il metal detector segnala resti metallici ad una certa profondità. Questo è, appunto, il territorio chiamato la "Tomba dei Galli" e, sebbene sembri a tutta prima una qualsiasi zona di campagna, possiede in effetti un fascino sinistro. La battaglia di Ravenna divenne un "must" del Medioevo, grazie anche alla presenza del Bojardo, il cosiddetto "Cavaliere senza macchia e senza paura". Lo studioso Giancarlo Schizzerotto ritrovò negli anni 70 del secolo scorso ben otto poemetti in volgare in Italia e uno in Francia. Particolare fortuna ebbe il poema in versi epici di tale Giannotto, milite romano sotto le insegne di Troylo Savelli, romano pure lui. L'invenzione della stampa a caratteri mobili, risalente a pochi decenni prima, ne amplificò la portata, anzi, questo evento fece sì che si ideassero i primi tascabili a poco prezzo per tutti. In pratica attori e oratori catalizzavano l'attenzione del popolo nelle piazze leggendo da foglietti volanti le gesta della battaglia, dopodichè i foglietti venivano ceduti a prezzi popolari. Insomma, concludendo, la battaglia di Ravenna segna la fine di un mondo e l'inizio di un altro, nel bene e nel male, ma su di una cosa si è certi di non sbagliare: la guerra è sempre una cosa odiosa e incivile, e a farne le spese sono sempre i comuni cittadini.

Nella foto sopra la Colonna dei Francesi, mentre nell'altra una delle zone interessate dalla battaglia.

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