lunedì 31 ottobre 2016
lunedì 24 ottobre 2016
A Castel Bolognese, comune tra Faenza e Imola, il gruppo locale "I Koppertoni", famoso per le sue canzoni rock-demenziali, è stato premiato in Comune, e festeggiato dal sindaco Meluzzi per i suoi primi trent’anni di attività. «Ci sentiamo baronetti, come Mick Jagger o Rod Stewart»
Il duo rock demenziale I Koppertoni,
noto per alcune canzoni e apparizioni televisive a ‘Roxi Bar’ e ‘Blob’,
ha vissuto un nuovo momento di gloria con la consegna di una
onorificenza ufficiale da parte del sindaco di Castel Bolognese Daniele
Meluzzi per i trent’anni di attività.
Dopo la cerimonia, sempre in Municipio, si è tenuta una grande festa con brindisi e concerto per la gioia dei fan di Valentino Bettini e Samuele Santandrea.
Bettini, soddisfatti di celebrare questo traguardo?
«Certo. Quando il sindaco ci ha comunicato la sua intenzione, ci siamo subito ribattezzati ‘baronetti’, per non esser da meno di nostri idoli quali Mick Jagger o Rod Stewart. Trent’anni sono un bell’obiettivo ma come mi diverto sempre a dire: il meglio deve ancora venire!».
Come vi siete conosciuti lei e Samuele Santandrea?
«Come non si direbbe, in un contesto parrocchiale, nel 1986. È stato inevitabile conoscersi, perché Samuele stava cercando di metter su una band e aveva assoluta necessità di un chitarrista. Gli stava venendo un esaurimento nervoso, finché ha incontrato me, l’unico di quella generazione a rispondere ai requisiti. A quei tempi, lui era uno studente di vent’anni, mentre io un tecnico di 24 anni che lavorava alle Poste Italiane di Bologna. Peccato non aver cominciato prima ancora, forse avremmo trovato il coraggio di dedicarci a tempo pieno alla musica…».
Cosa ricorda dei vostri inizi?
«La bella collaborazione con Freak Antoni degli Skiantos, specializzato sempre in rock demenziale. Capitava spesso che lui fosse ospite di nostri spettacoli e viceversa noi nei suoi. Poi, il produttore Loris Ceroni ci ha aiutato a registrare il primo lavoro nel 1993, intitolato ‘La galèna cun a rock’, un boogie rock molto ballato nelle discoteche, quando ancora c’erano...».
Qual è stato il lavoro che ricorda con maggiore emozione?
«Girare il road movie comico musicale ‘Mosquito’, interamente nella nostra Romagna. Avevamo tanta passione, ma zero esperienza. Inizialmente abbiamo coinvolto gli amici, poi siamo riusciti a fare dei ‘colpi grossi’: oltre allo stesso Freak Antoni, abbiamo avuto il sì di Loris Capirossi per un incredibile inseguimento in moto e Raul Casadei per interpretare il diavolo. Uscito nel 2000, lo abbiamo portato in giro per un paio di anni. Ci ha proiettato in un modo che non ci apparteneva, riuscendo a fare cose che mai avremmo immaginato. Ricordo che andavamo al festival del Cinema di Venezia e camminavamo al fianco di Stefano Accorsi, ma quando rientravamo a casa, noi tornavano alle nostre attività che erano altre. È stato ed è un bellissimo gioco!».
Dopo la cerimonia, sempre in Municipio, si è tenuta una grande festa con brindisi e concerto per la gioia dei fan di Valentino Bettini e Samuele Santandrea.
Bettini, soddisfatti di celebrare questo traguardo?
«Certo. Quando il sindaco ci ha comunicato la sua intenzione, ci siamo subito ribattezzati ‘baronetti’, per non esser da meno di nostri idoli quali Mick Jagger o Rod Stewart. Trent’anni sono un bell’obiettivo ma come mi diverto sempre a dire: il meglio deve ancora venire!».
Come vi siete conosciuti lei e Samuele Santandrea?
«Come non si direbbe, in un contesto parrocchiale, nel 1986. È stato inevitabile conoscersi, perché Samuele stava cercando di metter su una band e aveva assoluta necessità di un chitarrista. Gli stava venendo un esaurimento nervoso, finché ha incontrato me, l’unico di quella generazione a rispondere ai requisiti. A quei tempi, lui era uno studente di vent’anni, mentre io un tecnico di 24 anni che lavorava alle Poste Italiane di Bologna. Peccato non aver cominciato prima ancora, forse avremmo trovato il coraggio di dedicarci a tempo pieno alla musica…».
Cosa ricorda dei vostri inizi?
«La bella collaborazione con Freak Antoni degli Skiantos, specializzato sempre in rock demenziale. Capitava spesso che lui fosse ospite di nostri spettacoli e viceversa noi nei suoi. Poi, il produttore Loris Ceroni ci ha aiutato a registrare il primo lavoro nel 1993, intitolato ‘La galèna cun a rock’, un boogie rock molto ballato nelle discoteche, quando ancora c’erano...».
Qual è stato il lavoro che ricorda con maggiore emozione?
«Girare il road movie comico musicale ‘Mosquito’, interamente nella nostra Romagna. Avevamo tanta passione, ma zero esperienza. Inizialmente abbiamo coinvolto gli amici, poi siamo riusciti a fare dei ‘colpi grossi’: oltre allo stesso Freak Antoni, abbiamo avuto il sì di Loris Capirossi per un incredibile inseguimento in moto e Raul Casadei per interpretare il diavolo. Uscito nel 2000, lo abbiamo portato in giro per un paio di anni. Ci ha proiettato in un modo che non ci apparteneva, riuscendo a fare cose che mai avremmo immaginato. Ricordo che andavamo al festival del Cinema di Venezia e camminavamo al fianco di Stefano Accorsi, ma quando rientravamo a casa, noi tornavano alle nostre attività che erano altre. È stato ed è un bellissimo gioco!».
martedì 18 ottobre 2016
Dario Fo e la Romagna
Dario Fo e Franca Rame erano di casa in Romagna, avendo acquistato vari decenni fa una villa di campagna a Sala di Cesenatico, dove trascorrevano molti mesi e dove sono stati concepite molte delle loro opere più importanti. A Cesenatico Dario Fo ebbe per vari anni come collaboratore un poeta e intellettuale locale, Walter Valeri, ora docente negli Stati Uniti, di cui ospitiamo in forma integrale un suo recente intervento su un noto social network.
Mio
caro Roberto, amico carissimo oltre che poeta di grande valore, mi
sento in dovere di scendere in campo al tuo fianco in questa assurda
polemica (assurda perche' davvero incomprensibile) per varie ragioni:
1) perche' ero loro assistente, responsabile dell'Ufficio Estero e
cessione dei diritti internazionali delle loro opere, e lavoravo giorno
e no0tte con Dario Fo e Franca Rame quando a Sala di Cesenatico
scrivevano le loro commedie, i loro monologhi, disegni, dipinti,
costumi, etc. 2) verificavamo assieme, parola per parola, le traduzioni
delle loro opere tradotte in varie lingue. 3) preparavamo i materiali
necessari per le loro tantissime tourne' internazionali, (Parigi,
Berlino, Madrid, Londra, New York, Atene, Bruxelles, Copenaghen, ecc)
nel periodo (1980- 1995, prima di trasferirmi negli Stati Uniti ed
iniziare il mio insegnamento alla Harvard University e successivamente
al Boston Conservatory), 4) sono stato il coordinatore della
manifestazione internazionale UN PALCOSCENICO PER LE DONNE prodotto e
voluto da Franca Rame, presentato al Comunale di Cesenatico con enorme
successo. Devo dire che solo chi e' in malafede e/o
minuscolo di cervello puo' sostenere che non ci sia un rapporto creativo
diretto, non esista un cordone ombellicale piu' che evidente, fra le
opere del Premio Nobel per la Letteratura Dario Fo e la
citta' di Cesenatico. Solo per fare un esempio: la canzone di Fo e
Jannacci "Si potrebbe andare tutti allo Zoo Comunale" (lo zoo di Cervia,
tanto per essere piu' espliciti), e' nata nella terrazzina di Primo
Grassi, in un giorno di noia e pioggia insanabile. Di questi aneddoti
ci sarebbe da riempira la Biblioteca Comunale di Cesenatico, ma diamo tempo
al tempo, magari un giorno lo faremo... Ora, per concludere, vorrei
aggiungere e proporre all'attenzione dei tanti 'ciechi e sordi
volontari' della nostra citta' un articolo apparso nel Numero 2 della rivista
online LA MACCHINA SOGNANTE. Tanto per far sapere cosa penso io (cosa
pensa un cesenaticense residente negli Stati Uniti) del teatro di Dario
Fo e Franca Rame.
DARIO FO: LA SFIDA DEL TEATRO AL POTERE (Walter Valeri)
30 marzo 2016. La macchina sognante, La macchina sognante num. 2, Teatrocorpo dell'attore, Dario Fo, potere, scrittura teatrale, sfida, Teatro.
Al di là dei valori letterari, spesso traducibili in gerarchie, chiavi d’accesso al consumo della cultura come prodotto di eruditi per eruditi, Dario Fo e Franca Rame con la loro ‘poetica militante e rappresentazione epica, come l’ha definita Simone Soriani nel suo ottimo saggio Dario Fo, dalla commedia al monologo, hanno segnato e segnano in concreto la ripresa di una critica al potere politico, che ha radici nel Medio Evo, esplosa in Italia alla fine degli anni Sessanta. La loro era, ed è tutt’ora, una sfida a quelle aree di potere, alte gerarchie della chiesa, della magistratura e dello stato, che operano costantemente per il mantenimento della ‘città dei privilegi’ (inclusi certi aspetti elitari delle avanguardie teatrali, molte delle quali oggi decisamente istituzionalizzate) in termini sociali, estetici, organizzativi e politici. La cronaca dei finanziamenti pubblici, il silenzio degli esclusi, la scienza dei linguaggi, inclusa la sociologia della letteratura e la semiologia teatrale, sono strumenti nati per evidenziare i nessi che legano teatro e società, letteratura e vita sociale, cronaca ed azione drammatica; non per nasconderli o addirittura negarli come spesso capita. Eppure il Nobel a Dario Fo e (moralmente) a Franca Rame ha scandalizzato e continua impunemente a scandalizzare i più intimamente. Ce lo dicono i loro sorrisini, le loro reticenze o aperti mugugni che attingono all’area più retriva e reazionaria della nostra società. Forse vale la pena tornarci sopra insistendo per ricordare che il Potere ha sempre sentito forte la tentazione, meglio dire la necessità, di frapporre figure sussidiarie fra l’attore, il palcoscenico e il pubblico. Necessità già testimoniata nell’Amleto, come ha scritto Tessari in un suo breve ma illuminante saggio: “Una compagnia di attori banditi dalla grande città, randagi tra la sparsa folla dei vagabondi, si avvicina al castello. Crede e spera di poter divertire con i suoi spettacoli i signori del luogo. E’ accolta. Il Principe che li ospita, tuttavia, non pare interessarsi un granché al loro repertorio. O, meglio dire, vuole essere lui a scegliere il dramma che sarà allestito. E, soprattutto, esige che sia rappresentato con alcune importanti ‘correzioni’ funzionali al suo disegno politico.” La storia la conosciamo bene. Quello che conta qui, per noi, è il fatto che questo episodio colloca il principe di Danimarca non solo fra gli esordi della storia della regia ma segna anche i primi intimi passi del moderno rapporto tra teatro e politica, per cui le stesse “norme del Castello e dei tempi, imponevano un’istanza di primitiva pedagogia, intesa a riformare l’arte della recitazione” soprattutto il suo ruolo nella raccolta del consenso. In altri termini la censura del potere.
In che cosa consiste, quando, se è lecito chiedere, entra in collisione la pratica teatrale di Dario Fo e Franca Rame con quella del teatro borghese ufficiale – nonché il nascente teatro pubblico? Sin dall’estate del 1953, quando Giorgio Strehler e Paolo Grassi autorizzarono le prove per un’estiva del Dito nell’occhio, di Dario Fo, Franco Parenti e Giustino Durano. Titolo che, fra l’altro, coincideva con quello di un rubrica satirica di Parenti per le colonne dell’Avanti, ben presto soppressa.
Erano gli anni, non lo si deve dimenticare, immediatamente a ridosso e successivi a quelli del Politecnico di Vittorini, chiuso per conflitti insanabili con la direzione del Partito Comunista. Erano gli anni della destra Democristiana di Scelba al governo. In quel contesto Dario Fo e Franca Rame imboccarono la strada del tutto impervia per una nuova socialità del teatro d’attore. Un obbiettivo non ancora completamente messo a fuoco a loro stessi e agli altri. Sarà la repressione, come sempre, a rendere chiari i contorni e lo spessore antagonistico di quel genere di teatro del tutto nuovo e anomalo. La stessa trasmissione radiofonica di esordio del 1951, Cocoricò, era stata censurata alla diciottesima puntata. Col passare del tempo la morsa non si è certo allentata se nel corso di un’intervista del 1962, con ironia, Dario Fo risponde alle critiche rivoltegli da ogni parte: “Gli autori negano che io sia un autore, gli attori negano che io sia un attore. Gli autori dicono: tu sei un attore che fa l’autore. Gli attori dicono: tu sei un autore che fa l’attore. Nessuno mi vuole nella sua categoria. Mi tollerano solo gli scenografi.”
Erano gli anni di "Isabella tre caravelle e un cacciaballe" e la critica lo accusava di non realizzare uno straccio di ideale estetico (neppure brechtiano!). Eppure Dario Fo e Franca Rame allestivano spettacoli di grande impatto, derivati dal teatro popolare d’attore. Impiegando le risorse del varietà, la farsa, il mimo, il clown, il teatro di figura, il cabaret, l’affabulazione, il fumetto, il cinema muto, realizzando una drammaturgia impura e unica. Indefinibile e fortemente segnata dal permanere dell’oralità, in cui il genio di Ruzante e l’idealizzazione del giullare medievale (ma anche la farsa evoluta e il teatro della beffa) si intrecciano con la cronaca, secondo un’ottica per cui l’attore realizza e subordina tutti gli elementi della rappresentazione ed è l’uomo della cultura orale, in chiave contemporanea, che si fa scena. Parlando del Nobel a Dario Fo non si può tacere il conflitto, anche esegetico, dell’intera sua opera con l’istituzione letteraria e teatrale del nostro Paese, incluse certe frange progressiste, che pure una volta si sono identificate con le parole di Franco Quadri poste in apertura del volumetto "Il teatro di regime", edito da Mazzotta nel 1976: “Torna a presentarsi l’urgenza di una rivoluzione, a livello prima di tutto teatrale, s’intende, di strutture e di modi di espressione: perché l’andamento del microcosmo teatrale riflette come uno specchio fedele quello dello Stato in cui viviamo. Con qualche fermento, con qualche scossone, da annegare nel montante stagno riformista.” Parole vere e giuste, allora come ora. Ma oggi, va detto chiaro e tondo, la città dei privilegi, come ha con forza sottolineato già anni fa Desmond Tutu, durante un ciclo di conferenze in Nord America, ha radici sulle opposte sponde, quello reazionario e quello progressista; incluso il pensiero, l’operato degli oppositori di un tempo.
Nel caso di Dario Fo e Franca Rame i conflitti con le aree di privilegio sono sempre stati chiari, pesanti e radicali. Non traducibili in divergenze accademiche, o di ordine meramente estetico. Senza voler elencare la lunga sfilza di processi, censure, attentati, minacce (sino al rapimento e la violenza atroce subita da Franca Rame) non sarebbe male riflettere sul nuovo genere di intolleranze che si affacciano sull’orizzonte del loro operato. Dario Fo e Franca Rame sono depositari di una funzione sociale importantissima, assegnata da un enorme seguito popolare e da oltre sessant’anni ininterrotti di teatro civile, caso unico nella storia del teatro di tutti i tempi; secondo un mandato che va aldilà dell’ideologia, pur contenendola indiscutibilmente. Fo è, assieme all’uomo della cultura orale, il grande grande architetto della dissacrazione, l’affabulatore anarcoide che rischia l’estinzione nell’era del digitale e dello smart-phone. Lo stesso Franco Fortini, critico, poeta e intellettuale fra i più autorevoli del secondo dopo-guerra (che pure aveva non poche resistenze nei confronti del teatro di Dario Fo e Franca Rame) riconosceva in Fo, durante un nostro colloquio personale al Teatro Greco di Milano, il massimo autore comico italiano. Soprattutto nel Mistero Buffo, vedeva semplificato il pensiero di Walter Benjamin, per cui: la comicità è il rovescio interno, obbligato, del lutto. Inteso come sofferenza per la perdita di dignità, o lotta per l’identità politica di un popolo e di una cultura. Specie per una cultura enfatica e partecipativa, epica, vecchia di secoli, che ha origine espressiva nelle arti e nei mestieri dell’alto Medio Evo, nella cultura contadina e nella piccola borghesia artigiana tipica dei villaggi italiani, sino alla fine deli anni cinquanta, filtrata da una coscienza gramsciana e marxista.
All’inizio di un interessante documentario, oggi datato e da rivedere, dedicato a Dario Fo e Franca Rame dal titolo "Un Nobel per due", realizzato da Filippo Piscopo e Lorena Luciano, presentato alla Biennale di Venezia, alla domanda dell’intervistatrice, che menzionava il Nobel per la letteratura appena ricevuto, Fo ha risposto: “Un attore, io vorrei essere presentato (e quindi ricordato) come un attore". Dunque Dario Fo insiste nel voler essere considerato semplicemente un attore. E, secondo me, a ragione; anche se le sue settanta e passa commedie, a cui ora si aggiungono alcuni romanzi, libri di memorie, dipinti a non finire, più un significativo manuale per l’attore aggiornato di recente, perché nel suo teatro, anzi nel loro teatro, oltre che per la forma e i contenuti svettano per quel loro modo di guardare e lasciarsi guardare. Nel modo di trasferire il corpo dell’attore e dell’attrice nella scrittura, di modulare la voce, di dislocarsi nello spazio scenico secondo un canone che accoglie nella recita le emozioni e le reazioni intellettuali di un pubblico popolare. Come ha ben chiarito Bernard Dort, un critico di cui sentiamo enormemente la mancanza, “ Dario Fo ha tutto per essere un mimo prodigioso. Sa riunire in un gesto della mano, del braccio e del corpo, quei movimenti casuali ai quali non cessiamo di abbandonarci. Ma quello che appare sono le figure mutevoli, transitorie degli uomini immersi nella storia e nella lotta delle classi.” Per poter fare questo, naturalmente, occorre che la cifra autorale e letteraria che l’attore impiega non sia quella del puro e semplice interprete, ma un parametro espressivo epico, aperto al mandato del pubblico presente nella sala e dinamico . Certo una variabile che solo i macchinisti possono tollerare. “L’unica soluzione per risolvere il problema del rinnovamento del teatro, sarebbe quella di costringere gli attori e le attrici a scriversi personalmente le proprie commedie. Gli attori devono imparare a fabbricarsi il proprio teatro. A che serve l’esercizio dell’improvvisazione? Per tessere e impostare un testo con parole, gesti e situazioni immediate; ma soprattutto a far uscire gli attori dall’idea falsa e pericolosa che il teatro non sia altro che letteratura". Perché anche l’attore persegua una sua istanza poetica, dignità espressiva, secondo la ben nota definizione di Anceschi, per il quale “la poetica rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali". E per quanto riguarda i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali bisogna proprio dire che Dario Fo in questo ci è stato maestro.
DARIO FO: LA SFIDA DEL TEATRO AL POTERE (Walter Valeri)
30 marzo 2016. La macchina sognante, La macchina sognante num. 2, Teatrocorpo dell'attore, Dario Fo, potere, scrittura teatrale, sfida, Teatro.
Al di là dei valori letterari, spesso traducibili in gerarchie, chiavi d’accesso al consumo della cultura come prodotto di eruditi per eruditi, Dario Fo e Franca Rame con la loro ‘poetica militante e rappresentazione epica, come l’ha definita Simone Soriani nel suo ottimo saggio Dario Fo, dalla commedia al monologo, hanno segnato e segnano in concreto la ripresa di una critica al potere politico, che ha radici nel Medio Evo, esplosa in Italia alla fine degli anni Sessanta. La loro era, ed è tutt’ora, una sfida a quelle aree di potere, alte gerarchie della chiesa, della magistratura e dello stato, che operano costantemente per il mantenimento della ‘città dei privilegi’ (inclusi certi aspetti elitari delle avanguardie teatrali, molte delle quali oggi decisamente istituzionalizzate) in termini sociali, estetici, organizzativi e politici. La cronaca dei finanziamenti pubblici, il silenzio degli esclusi, la scienza dei linguaggi, inclusa la sociologia della letteratura e la semiologia teatrale, sono strumenti nati per evidenziare i nessi che legano teatro e società, letteratura e vita sociale, cronaca ed azione drammatica; non per nasconderli o addirittura negarli come spesso capita. Eppure il Nobel a Dario Fo e (moralmente) a Franca Rame ha scandalizzato e continua impunemente a scandalizzare i più intimamente. Ce lo dicono i loro sorrisini, le loro reticenze o aperti mugugni che attingono all’area più retriva e reazionaria della nostra società. Forse vale la pena tornarci sopra insistendo per ricordare che il Potere ha sempre sentito forte la tentazione, meglio dire la necessità, di frapporre figure sussidiarie fra l’attore, il palcoscenico e il pubblico. Necessità già testimoniata nell’Amleto, come ha scritto Tessari in un suo breve ma illuminante saggio: “Una compagnia di attori banditi dalla grande città, randagi tra la sparsa folla dei vagabondi, si avvicina al castello. Crede e spera di poter divertire con i suoi spettacoli i signori del luogo. E’ accolta. Il Principe che li ospita, tuttavia, non pare interessarsi un granché al loro repertorio. O, meglio dire, vuole essere lui a scegliere il dramma che sarà allestito. E, soprattutto, esige che sia rappresentato con alcune importanti ‘correzioni’ funzionali al suo disegno politico.” La storia la conosciamo bene. Quello che conta qui, per noi, è il fatto che questo episodio colloca il principe di Danimarca non solo fra gli esordi della storia della regia ma segna anche i primi intimi passi del moderno rapporto tra teatro e politica, per cui le stesse “norme del Castello e dei tempi, imponevano un’istanza di primitiva pedagogia, intesa a riformare l’arte della recitazione” soprattutto il suo ruolo nella raccolta del consenso. In altri termini la censura del potere.
In che cosa consiste, quando, se è lecito chiedere, entra in collisione la pratica teatrale di Dario Fo e Franca Rame con quella del teatro borghese ufficiale – nonché il nascente teatro pubblico? Sin dall’estate del 1953, quando Giorgio Strehler e Paolo Grassi autorizzarono le prove per un’estiva del Dito nell’occhio, di Dario Fo, Franco Parenti e Giustino Durano. Titolo che, fra l’altro, coincideva con quello di un rubrica satirica di Parenti per le colonne dell’Avanti, ben presto soppressa.
Erano gli anni, non lo si deve dimenticare, immediatamente a ridosso e successivi a quelli del Politecnico di Vittorini, chiuso per conflitti insanabili con la direzione del Partito Comunista. Erano gli anni della destra Democristiana di Scelba al governo. In quel contesto Dario Fo e Franca Rame imboccarono la strada del tutto impervia per una nuova socialità del teatro d’attore. Un obbiettivo non ancora completamente messo a fuoco a loro stessi e agli altri. Sarà la repressione, come sempre, a rendere chiari i contorni e lo spessore antagonistico di quel genere di teatro del tutto nuovo e anomalo. La stessa trasmissione radiofonica di esordio del 1951, Cocoricò, era stata censurata alla diciottesima puntata. Col passare del tempo la morsa non si è certo allentata se nel corso di un’intervista del 1962, con ironia, Dario Fo risponde alle critiche rivoltegli da ogni parte: “Gli autori negano che io sia un autore, gli attori negano che io sia un attore. Gli autori dicono: tu sei un attore che fa l’autore. Gli attori dicono: tu sei un autore che fa l’attore. Nessuno mi vuole nella sua categoria. Mi tollerano solo gli scenografi.”
Erano gli anni di "Isabella tre caravelle e un cacciaballe" e la critica lo accusava di non realizzare uno straccio di ideale estetico (neppure brechtiano!). Eppure Dario Fo e Franca Rame allestivano spettacoli di grande impatto, derivati dal teatro popolare d’attore. Impiegando le risorse del varietà, la farsa, il mimo, il clown, il teatro di figura, il cabaret, l’affabulazione, il fumetto, il cinema muto, realizzando una drammaturgia impura e unica. Indefinibile e fortemente segnata dal permanere dell’oralità, in cui il genio di Ruzante e l’idealizzazione del giullare medievale (ma anche la farsa evoluta e il teatro della beffa) si intrecciano con la cronaca, secondo un’ottica per cui l’attore realizza e subordina tutti gli elementi della rappresentazione ed è l’uomo della cultura orale, in chiave contemporanea, che si fa scena. Parlando del Nobel a Dario Fo non si può tacere il conflitto, anche esegetico, dell’intera sua opera con l’istituzione letteraria e teatrale del nostro Paese, incluse certe frange progressiste, che pure una volta si sono identificate con le parole di Franco Quadri poste in apertura del volumetto "Il teatro di regime", edito da Mazzotta nel 1976: “Torna a presentarsi l’urgenza di una rivoluzione, a livello prima di tutto teatrale, s’intende, di strutture e di modi di espressione: perché l’andamento del microcosmo teatrale riflette come uno specchio fedele quello dello Stato in cui viviamo. Con qualche fermento, con qualche scossone, da annegare nel montante stagno riformista.” Parole vere e giuste, allora come ora. Ma oggi, va detto chiaro e tondo, la città dei privilegi, come ha con forza sottolineato già anni fa Desmond Tutu, durante un ciclo di conferenze in Nord America, ha radici sulle opposte sponde, quello reazionario e quello progressista; incluso il pensiero, l’operato degli oppositori di un tempo.
Nel caso di Dario Fo e Franca Rame i conflitti con le aree di privilegio sono sempre stati chiari, pesanti e radicali. Non traducibili in divergenze accademiche, o di ordine meramente estetico. Senza voler elencare la lunga sfilza di processi, censure, attentati, minacce (sino al rapimento e la violenza atroce subita da Franca Rame) non sarebbe male riflettere sul nuovo genere di intolleranze che si affacciano sull’orizzonte del loro operato. Dario Fo e Franca Rame sono depositari di una funzione sociale importantissima, assegnata da un enorme seguito popolare e da oltre sessant’anni ininterrotti di teatro civile, caso unico nella storia del teatro di tutti i tempi; secondo un mandato che va aldilà dell’ideologia, pur contenendola indiscutibilmente. Fo è, assieme all’uomo della cultura orale, il grande grande architetto della dissacrazione, l’affabulatore anarcoide che rischia l’estinzione nell’era del digitale e dello smart-phone. Lo stesso Franco Fortini, critico, poeta e intellettuale fra i più autorevoli del secondo dopo-guerra (che pure aveva non poche resistenze nei confronti del teatro di Dario Fo e Franca Rame) riconosceva in Fo, durante un nostro colloquio personale al Teatro Greco di Milano, il massimo autore comico italiano. Soprattutto nel Mistero Buffo, vedeva semplificato il pensiero di Walter Benjamin, per cui: la comicità è il rovescio interno, obbligato, del lutto. Inteso come sofferenza per la perdita di dignità, o lotta per l’identità politica di un popolo e di una cultura. Specie per una cultura enfatica e partecipativa, epica, vecchia di secoli, che ha origine espressiva nelle arti e nei mestieri dell’alto Medio Evo, nella cultura contadina e nella piccola borghesia artigiana tipica dei villaggi italiani, sino alla fine deli anni cinquanta, filtrata da una coscienza gramsciana e marxista.
All’inizio di un interessante documentario, oggi datato e da rivedere, dedicato a Dario Fo e Franca Rame dal titolo "Un Nobel per due", realizzato da Filippo Piscopo e Lorena Luciano, presentato alla Biennale di Venezia, alla domanda dell’intervistatrice, che menzionava il Nobel per la letteratura appena ricevuto, Fo ha risposto: “Un attore, io vorrei essere presentato (e quindi ricordato) come un attore". Dunque Dario Fo insiste nel voler essere considerato semplicemente un attore. E, secondo me, a ragione; anche se le sue settanta e passa commedie, a cui ora si aggiungono alcuni romanzi, libri di memorie, dipinti a non finire, più un significativo manuale per l’attore aggiornato di recente, perché nel suo teatro, anzi nel loro teatro, oltre che per la forma e i contenuti svettano per quel loro modo di guardare e lasciarsi guardare. Nel modo di trasferire il corpo dell’attore e dell’attrice nella scrittura, di modulare la voce, di dislocarsi nello spazio scenico secondo un canone che accoglie nella recita le emozioni e le reazioni intellettuali di un pubblico popolare. Come ha ben chiarito Bernard Dort, un critico di cui sentiamo enormemente la mancanza, “ Dario Fo ha tutto per essere un mimo prodigioso. Sa riunire in un gesto della mano, del braccio e del corpo, quei movimenti casuali ai quali non cessiamo di abbandonarci. Ma quello che appare sono le figure mutevoli, transitorie degli uomini immersi nella storia e nella lotta delle classi.” Per poter fare questo, naturalmente, occorre che la cifra autorale e letteraria che l’attore impiega non sia quella del puro e semplice interprete, ma un parametro espressivo epico, aperto al mandato del pubblico presente nella sala e dinamico . Certo una variabile che solo i macchinisti possono tollerare. “L’unica soluzione per risolvere il problema del rinnovamento del teatro, sarebbe quella di costringere gli attori e le attrici a scriversi personalmente le proprie commedie. Gli attori devono imparare a fabbricarsi il proprio teatro. A che serve l’esercizio dell’improvvisazione? Per tessere e impostare un testo con parole, gesti e situazioni immediate; ma soprattutto a far uscire gli attori dall’idea falsa e pericolosa che il teatro non sia altro che letteratura". Perché anche l’attore persegua una sua istanza poetica, dignità espressiva, secondo la ben nota definizione di Anceschi, per il quale “la poetica rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali". E per quanto riguarda i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali bisogna proprio dire che Dario Fo in questo ci è stato maestro.
giovedì 13 ottobre 2016
Luigi Gattinelli, attore dell'800
GATTINELLI. - Famiglia di attori che ha fornito al teatro italiano quattro generazioni di distinti artisti.
Il primo a calcare le scene fu Luigi (I), battezzato a Meldola (Forlì), nella parrocchia di S. Nicolò, il 13 aprile 1786, figlio di Niccolò, orefice, e di Teresa Fanelli. La famiglia si trasferì poco dopo a Lugo di Romagna, e in quella cittadina Gattinelli seguì studi di ornato e di disegno per continuare il mestiere paterno. Affinché si specializzasse fu poi mandato a Bologna per qualche anno. Rientrato a Lugo, nel febbraio 1806 si sposò con la sarta Giuseppina Stanghellini, dalla quale ebbe due figli, Gaetano e Angelo. Appassionato di teatro, entrò a far parte di una filodrammatica locale, dedicandovisi con entusiasmo e buoni risultati, tanto che, dopo aver ricevuto le lodi del famoso attore De Marini che lo aveva visto recitare, decise con un vero colpo di testa d'abbandonare il suo mestiere per darsi professionalmente al teatro.
Fece i primi passi con una compagnia di guitti girovaghi, finché venne accolto in quella di F. Taddei, con la quale lavorò per ben dodici anni, con la qualifica di "primo uomo", procacciandosi una notevole popolarità. Successivamente fu ingaggiato dalla compagnia di Luigi Vestri, una delle più importanti. Fu allora che, a causa di una certa pinguedine che lo rendeva poco adatto ad alcune parti, assunse il ruolo di caratterista e promiscuo, nel quale si dimostrò eccellente. Entrò poi nella compagnia Solmi-Pisenti, per passare nella primavera 1826 in quella di Luigi Domeniconi, e nel 1833 in quella di Romualdo Mascherpa, che fu l'ultima (contratto del 20 agosto 1833, che gli garantiva 6000 lire annue e una mezza beneficiata per ogni piazza). Il 29 luglio 1845, mentre viaggiava per raggiungere quest'ultima compagnia, che lo aveva lasciato indietro a Lendinara, perché ammalato, fu vittima presso Marradi di un gravissimo incidente di carrozza, che lo portò a morte nella notte. La sua tragica scomparsa diede la misura della sua popolarità: ai funerali nella chiesa di S. Francesco di Paola a Torino presenziarono tutti gli attori della Compagnia reale sarda e della Favre; sul luogo ove era avvenuto l'incidente fu eretto un monumento con iscrizione latina di L.G. Ferrucci; nell'autunno il Mascherpa lo commemorò nel teatro Metastasio di Roma. Luigi Gattinelli fu considerato un attore "moderno", per il suo modo di porgersi efficace ma misurato e sobrio che alcuni critici, in tempi di grande enfasi recitativa, giudicarono talvolta freddezza. La sua preparazione teatrale e la sua intelligenza sono testimoniate da numerose lettere da lui indirizzate nel 1826 da Treviso al drammaturgo A. Benci, e da quelle del 1844 da Trieste al figlio Angelo che si trovava a Vicenza. Il suo repertorio fu notevolmente vasto: da Vittorio Alfieri (memorabile un suo Filippo) ai principali ruoli goldoniani (La bottega del caffè, I rusteghi, Sior Todero brontolon), ma anche L'aio nell'imbarazzo di G. Giraud e il Don Desiderio di G. Gigli.
Gaetano, primogenito di Luigi e di Giuseppina Stanguellini, nacque a Lugo l'11 dicembre 1806. Da ragazzo partecipò alle recite di dilettanti organizzate dal padre, e, quando egli si dedicò al teatro professionale, lo seguì per alcuni mesi; la madre però si oppose: prima volle che completasse gli studi medi in un collegio di Lugo e poi lo indusse a iscriversi alla facoltà di diritto dell'Università di Bologna. Egli però non finì gli studi; raggiunse il padre che stava recitando a Venezia col Taddei e riuscì a persuaderlo a fargli calcare il palcoscenico. Al suo esordio subì una serie di solenni insuccessi, che lo costrinsero a rientrare frustrato a Lugo. Poco dopo riuscì però a farsi accogliere nella compagnia di F. Lombardi, che fu per lui un ottimo maestro, tanto che quando si ripresentò al pubblico ottenne un buon successo. Nella stagione 1830-31 entrò in società con Giacomo Job a Roma, ma la passione politica lo spinse a interrompere il lavoro per partecipare ai moti insurrezionali del 1831: s'arruolò a Bologna nella guardia nazionale, e fece quindi parte del corpo dei dragoni del generale C. Zucchi ad Ancona e con G. Mastai Ferretti a Senigallia. Dopo la repressione dei moti fu bandito, perseguito e incarcerato; recuperata la libertà si recò dal padre, che recitava allora a Parma con la compagnia Rosa-Ventura, e riuscì a farsi scritturare col ruolo di brillante assoluto, superando l'handicap dell'aspetto accigliato e della voce un po' rauca, e cercando di liberarsi delle inflessioni romagnole, che però pare conservasse ancora nella compagine del Mascherpa, col quale lavorò quattro anni. In seguito, come caratterista, tornò con A. Rosa fino al 1842, e finalmente nel 1844 fu chiamato a sostituire Luigi Taddei nella Compagnia reale sarda, nella quale militò per dodici anni, fino al suo scioglimento, anche quando nel 1854 essa fu privata della sovvenzione statale; nel 1855 partecipò ai trionfi parigini, quando la compagnia, sotto la direzione di F. Righetti, si esibì alla salle Ventadour, ottenendo critiche entusiastiche (specialmente per Il burbero benefico, Un curioso accidente, La bottega del caffè e La locandiera), che Gaetano condivise con Adelaide Ristori, Ernesto Rossi e Luigi Bellotti Bon. Al ritorno divenne socio del Rossi in una compagnia di grande qualità, di cui egli fu direttore e che, nel 1857, tenne una serie di rappresentazioni a Vienna, con straordinario successo. Il suo patriottismo gli impose una nuova interruzione della carriera per partecipare attivamente a Lugo ai moti del 1859. Nel 1860, dopo aver lavorato brevemente con G. Pieri, fondò una propria compagnia (denominata Dell'Italia Centrale), allo scopo di assecondare la passione per il teatro della figlia Antonietta, nata dal matrimonio con la bresciana Amalia Prina, la quale ottenne qualche successo, specialmente a Tolentino nelle stagioni 1862 e 1866. Tale compagnia ebbe fine col matrimonio di Antonietta. Nel 1870 Gaetano, ritiratosi definitivamente dalle scene, fu chiamato a dirigere a Firenze la Reale Accademia de' Fidenti, per la quale si occupò delle recite dei soci nel teatrino di S. Giuliano, cui talvolta partecipò di persona. Tenne poi anche dei corsi di declamazione a Roma, ove morì il 17 giugno 1884.
Gaetano fu anche un prolifico autore; in tale veste incontrò sempre il favore del pubblico, ma i suoi lavori appaiono oggi "legati al più tradizionale convenzionalismo scenico" (Enc. dello spettacolo, col. 979) e furono severamente giudicati dal De Sanctis. Essi furono raccolti postumi in due volumi col titolo Teatro drammatico…, Roma 1887; i più noti furono: Selvaggia (da un romanzo di M. d'Azeglio), Torino 1852; Vittorio Alfieri e Luigia d'Albany, Milano 1855; Clelia, o La plutomania, Milano 1855 (2ª ed., Roma 1856); La caduta di una dinastia, Firenze 1862 (premio al concorso governativo del 1861); Milton, ibid. 1868; La notte di S. Bartolomeo, ibid. 1884; Gli ugonotti, Milano 1885. Nel 1858 a Brescia egli aveva pubblicato un'interessante memoria indirizzata al governo sardo, Progetto per la fondazione di un Istituto drammatico nazionale italiano, che trovò l'interesse del primo ministro C. di Cavour, ma fu poi bocciato dalla Camera subalpina a causa degli avvenimenti bellici. Pubblicò anche un trattatello sull'arte drammatica, Dell'arte rappresentativa: manuale ad uso degli studiosi della drammatica e del canto (Roma 1876), e alcune traduzioni di opere di A.-E. Scribe.
Il figlio minore di Luigi, Angelo (I), nato a Lugo nel 1808, si sentì anch'egli attratto fin dall'adolescenza dal palcoscenico, divenendo ben presto un apprezzato caratterista. Fece il suo debutto nella compagnia Astolfi, unendosi poi in matrimonio con l'attrice Carolina Astolfi. In seguito formò ditta con L. Taddei, e poi con G. Mozzi, ma la morte della moglie, appena ventiseienne, avvenuta a Trento nel 1838, lo spinse a sciogliere questa società. Sempre come caratterista passò quindi per numerose rinomate compagnie: la Mascherpa, la Pelzet-Domeniconi, la Costantini-Colombino, la Livini, la Ferri, la Pisenti-Solmi (con la quale restò più a lungo), la Giannuzzi, la Vestri-Antinori, e infine la Tessari-Bertini, con la quale stava lavorando a Rovigno d'Istria quando cessò improvvisamente di vivere il 15 gennaio (secondo alcuni il 12) 1859. Come autore aveva tradotto dal francese alcuni lavori teatrali di moda.
Da Carolina Astolfi aveva avuto un figlio, Luigi (II), nato a Milano il 3 genn. 1831. Orfano di madre a sette anni, egli fu mandato dal padre, che lo voleva ufficiale, al Collegio militare Maria Luigia di Parma, che però abbandonò nel 1847 contro la volontà paterna per darsi anch'egli al teatro nei ruoli di amoroso. Gli avvenimenti politici del 1848-49 lo coinvolsero, come altri membri della famiglia: divenuto sergente nel 3° reggimento di linea della Repubblica Romana, prese parte allo scontro di Velletri e alla difesa di Roma. Dopo la caduta della Repubblica tornò al teatro, assumendo però ruoli di brillante, che sembrarono più adatti al suo temperamento e al suo aspetto, ottenendo buoni successi con le compagnie Costantini, Chiari, Zoppetti, Tassani, Andreani, Monti-Preda, Zammarini e Sivori-Sadowsky. Con l'età tornò alle parti di caratterista; nelle stagioni 1871-72 fu secondo caratterista con L. Bellotti Bon, e poi primo caratterista e primo promiscuo con F. Coltellini, Anna Pedretti e Giacinta Pezzana. Con Ermete Novelli rimase per tre anni, ed entrò poi nella compagnia Dominici, con la quale ottenne grossi successi al teatro Manzoni di Roma. Faceva parte della compagnia Falconi-Bertini quando, colpito da polmonite, morì a Bologna il 13 agosto 1890. Dalla prima moglie Luigia Barbini, sposata nel 1857, aveva avuto un figlio, Angelo, e una figlia morta infante. Nel 1861 si risposò con Amalia Manzoni.
Il figlio di Luigi (II) e di Luigia Barbini, Angelo (II), nato a Vercelli il 18 settembre 1858, entrò giovinetto come secondo amoroso nella compagnia di F. Coltellini, in cui lavorava suo padre, seguendo il quale passò a quella di Anna Pedretti come primo attor giovane. In seguito fu con Bellotti Bon e, nuovamente nel ruolo di secondo amoroso, con Virginia Marini; poi, come generico d'importanza nelle compagnie Nazionale, Marini e Garzes. Dopo la morte di Francesco Garzes nel 1895, entrò nella Ferrati-Rossi, ma presto decise di abbandonare l'attività teatrale, accettando la cattedra di recitazione dell'Accademia di S. Cecilia a Roma. Nel 1880 aveva sposato Annetta Marini anche lei attrice, sorella di Virginia, che spesso recitò insieme con lui e morì a Roma il 15 agosto 1927, mentre Angelo morì a Roma il 17 marzo 1941.
Fonti e Bibl.: Roma, Biblioteca dell'Istituto di archeologia e storia dell'arte, ms. 21, A. Colomberti, Memorie artistiche dei più distinti comici e comiche…, p. 146 (per Luigi I); ms. 22, Cenni artistici de' comici italiani…, pp. 247-250 (per Luigi I), 251 (per Gaetano e Angelo di Luigi I); Ibid., Biblioteca teatrale del Burcardo, ms. 3-42-8-33A; Giornaletto ragionato teatrale, Venezia 1820; F. De Sanctis, Una commedia nuova, in Rivista contemporanea, III (1856), 5, pp. 323-336; F. Regli, Diz. biogr. de' più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici…, Torino 1860, pp. 225-229 (per Gaetano), 229-230 (per Luigi I); G., Gaetano, in A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, p. 492; C. Trevisani, Delle condizioni della letteratura drammatica italiana nell'ultimo ventennio, Firenze 1887, pp. 150, 184; E. Rossi, Quarant'anni di vita artistica, I, Firenze 1887, pp. 62, 64 s., 262 (per Gaetano); G. Gattinelli, Teatro drammatico…, a cura di A. Prina, I-II, Roma 1887 (introduzione biografica); G. Costetti, La Compagnia reale sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano 1893, passim (per Gaetano); L. Rasi, I comici italiani, I, Firenze 1897, pp. 994-998 (per Luigi I), 998-1001 (per Gaetano), 1001 s. (per Angelo I), 1002 s. (per Luigi II), 1003 s. (per Angelo II); G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800, Rocca San Casciano s.d. [1901], pp. 79, 112, 128, 530; R. Lelièvre, Le théâtre dramatique italien en France 1855-1940, Paris 1959, pp. 20-31, in particolare p. 28 (sulla tournée in Francia; cfr. anche Le Figaro, 27 maggio 1855); F. Doglio, Storia del teatro, III, Dal barocco al simbolismo, Milano 1990, p. 350; Enc. Italiana, XVI, p. 451; Enc. biogr. e bibliogr. "Italiana", N. Leonelli, Attori tragici, attori comici, I, Roma 1940, pp. 421 (per Angelo I), 422 s. (per Gaetano) 423 (per Luigi I), 424 (per Angelo II); Enc. dello spettacolo, V, coll. 978-980; Catalogo dei libri italiani dell'Ottocento, Autori, III, p. 2081 (segnala alcune delle opere edite di Gaetano).
Il primo a calcare le scene fu Luigi (I), battezzato a Meldola (Forlì), nella parrocchia di S. Nicolò, il 13 aprile 1786, figlio di Niccolò, orefice, e di Teresa Fanelli. La famiglia si trasferì poco dopo a Lugo di Romagna, e in quella cittadina Gattinelli seguì studi di ornato e di disegno per continuare il mestiere paterno. Affinché si specializzasse fu poi mandato a Bologna per qualche anno. Rientrato a Lugo, nel febbraio 1806 si sposò con la sarta Giuseppina Stanghellini, dalla quale ebbe due figli, Gaetano e Angelo. Appassionato di teatro, entrò a far parte di una filodrammatica locale, dedicandovisi con entusiasmo e buoni risultati, tanto che, dopo aver ricevuto le lodi del famoso attore De Marini che lo aveva visto recitare, decise con un vero colpo di testa d'abbandonare il suo mestiere per darsi professionalmente al teatro.
Fece i primi passi con una compagnia di guitti girovaghi, finché venne accolto in quella di F. Taddei, con la quale lavorò per ben dodici anni, con la qualifica di "primo uomo", procacciandosi una notevole popolarità. Successivamente fu ingaggiato dalla compagnia di Luigi Vestri, una delle più importanti. Fu allora che, a causa di una certa pinguedine che lo rendeva poco adatto ad alcune parti, assunse il ruolo di caratterista e promiscuo, nel quale si dimostrò eccellente. Entrò poi nella compagnia Solmi-Pisenti, per passare nella primavera 1826 in quella di Luigi Domeniconi, e nel 1833 in quella di Romualdo Mascherpa, che fu l'ultima (contratto del 20 agosto 1833, che gli garantiva 6000 lire annue e una mezza beneficiata per ogni piazza). Il 29 luglio 1845, mentre viaggiava per raggiungere quest'ultima compagnia, che lo aveva lasciato indietro a Lendinara, perché ammalato, fu vittima presso Marradi di un gravissimo incidente di carrozza, che lo portò a morte nella notte. La sua tragica scomparsa diede la misura della sua popolarità: ai funerali nella chiesa di S. Francesco di Paola a Torino presenziarono tutti gli attori della Compagnia reale sarda e della Favre; sul luogo ove era avvenuto l'incidente fu eretto un monumento con iscrizione latina di L.G. Ferrucci; nell'autunno il Mascherpa lo commemorò nel teatro Metastasio di Roma. Luigi Gattinelli fu considerato un attore "moderno", per il suo modo di porgersi efficace ma misurato e sobrio che alcuni critici, in tempi di grande enfasi recitativa, giudicarono talvolta freddezza. La sua preparazione teatrale e la sua intelligenza sono testimoniate da numerose lettere da lui indirizzate nel 1826 da Treviso al drammaturgo A. Benci, e da quelle del 1844 da Trieste al figlio Angelo che si trovava a Vicenza. Il suo repertorio fu notevolmente vasto: da Vittorio Alfieri (memorabile un suo Filippo) ai principali ruoli goldoniani (La bottega del caffè, I rusteghi, Sior Todero brontolon), ma anche L'aio nell'imbarazzo di G. Giraud e il Don Desiderio di G. Gigli.
Gaetano, primogenito di Luigi e di Giuseppina Stanguellini, nacque a Lugo l'11 dicembre 1806. Da ragazzo partecipò alle recite di dilettanti organizzate dal padre, e, quando egli si dedicò al teatro professionale, lo seguì per alcuni mesi; la madre però si oppose: prima volle che completasse gli studi medi in un collegio di Lugo e poi lo indusse a iscriversi alla facoltà di diritto dell'Università di Bologna. Egli però non finì gli studi; raggiunse il padre che stava recitando a Venezia col Taddei e riuscì a persuaderlo a fargli calcare il palcoscenico. Al suo esordio subì una serie di solenni insuccessi, che lo costrinsero a rientrare frustrato a Lugo. Poco dopo riuscì però a farsi accogliere nella compagnia di F. Lombardi, che fu per lui un ottimo maestro, tanto che quando si ripresentò al pubblico ottenne un buon successo. Nella stagione 1830-31 entrò in società con Giacomo Job a Roma, ma la passione politica lo spinse a interrompere il lavoro per partecipare ai moti insurrezionali del 1831: s'arruolò a Bologna nella guardia nazionale, e fece quindi parte del corpo dei dragoni del generale C. Zucchi ad Ancona e con G. Mastai Ferretti a Senigallia. Dopo la repressione dei moti fu bandito, perseguito e incarcerato; recuperata la libertà si recò dal padre, che recitava allora a Parma con la compagnia Rosa-Ventura, e riuscì a farsi scritturare col ruolo di brillante assoluto, superando l'handicap dell'aspetto accigliato e della voce un po' rauca, e cercando di liberarsi delle inflessioni romagnole, che però pare conservasse ancora nella compagine del Mascherpa, col quale lavorò quattro anni. In seguito, come caratterista, tornò con A. Rosa fino al 1842, e finalmente nel 1844 fu chiamato a sostituire Luigi Taddei nella Compagnia reale sarda, nella quale militò per dodici anni, fino al suo scioglimento, anche quando nel 1854 essa fu privata della sovvenzione statale; nel 1855 partecipò ai trionfi parigini, quando la compagnia, sotto la direzione di F. Righetti, si esibì alla salle Ventadour, ottenendo critiche entusiastiche (specialmente per Il burbero benefico, Un curioso accidente, La bottega del caffè e La locandiera), che Gaetano condivise con Adelaide Ristori, Ernesto Rossi e Luigi Bellotti Bon. Al ritorno divenne socio del Rossi in una compagnia di grande qualità, di cui egli fu direttore e che, nel 1857, tenne una serie di rappresentazioni a Vienna, con straordinario successo. Il suo patriottismo gli impose una nuova interruzione della carriera per partecipare attivamente a Lugo ai moti del 1859. Nel 1860, dopo aver lavorato brevemente con G. Pieri, fondò una propria compagnia (denominata Dell'Italia Centrale), allo scopo di assecondare la passione per il teatro della figlia Antonietta, nata dal matrimonio con la bresciana Amalia Prina, la quale ottenne qualche successo, specialmente a Tolentino nelle stagioni 1862 e 1866. Tale compagnia ebbe fine col matrimonio di Antonietta. Nel 1870 Gaetano, ritiratosi definitivamente dalle scene, fu chiamato a dirigere a Firenze la Reale Accademia de' Fidenti, per la quale si occupò delle recite dei soci nel teatrino di S. Giuliano, cui talvolta partecipò di persona. Tenne poi anche dei corsi di declamazione a Roma, ove morì il 17 giugno 1884.
Gaetano fu anche un prolifico autore; in tale veste incontrò sempre il favore del pubblico, ma i suoi lavori appaiono oggi "legati al più tradizionale convenzionalismo scenico" (Enc. dello spettacolo, col. 979) e furono severamente giudicati dal De Sanctis. Essi furono raccolti postumi in due volumi col titolo Teatro drammatico…, Roma 1887; i più noti furono: Selvaggia (da un romanzo di M. d'Azeglio), Torino 1852; Vittorio Alfieri e Luigia d'Albany, Milano 1855; Clelia, o La plutomania, Milano 1855 (2ª ed., Roma 1856); La caduta di una dinastia, Firenze 1862 (premio al concorso governativo del 1861); Milton, ibid. 1868; La notte di S. Bartolomeo, ibid. 1884; Gli ugonotti, Milano 1885. Nel 1858 a Brescia egli aveva pubblicato un'interessante memoria indirizzata al governo sardo, Progetto per la fondazione di un Istituto drammatico nazionale italiano, che trovò l'interesse del primo ministro C. di Cavour, ma fu poi bocciato dalla Camera subalpina a causa degli avvenimenti bellici. Pubblicò anche un trattatello sull'arte drammatica, Dell'arte rappresentativa: manuale ad uso degli studiosi della drammatica e del canto (Roma 1876), e alcune traduzioni di opere di A.-E. Scribe.
Il figlio minore di Luigi, Angelo (I), nato a Lugo nel 1808, si sentì anch'egli attratto fin dall'adolescenza dal palcoscenico, divenendo ben presto un apprezzato caratterista. Fece il suo debutto nella compagnia Astolfi, unendosi poi in matrimonio con l'attrice Carolina Astolfi. In seguito formò ditta con L. Taddei, e poi con G. Mozzi, ma la morte della moglie, appena ventiseienne, avvenuta a Trento nel 1838, lo spinse a sciogliere questa società. Sempre come caratterista passò quindi per numerose rinomate compagnie: la Mascherpa, la Pelzet-Domeniconi, la Costantini-Colombino, la Livini, la Ferri, la Pisenti-Solmi (con la quale restò più a lungo), la Giannuzzi, la Vestri-Antinori, e infine la Tessari-Bertini, con la quale stava lavorando a Rovigno d'Istria quando cessò improvvisamente di vivere il 15 gennaio (secondo alcuni il 12) 1859. Come autore aveva tradotto dal francese alcuni lavori teatrali di moda.
Da Carolina Astolfi aveva avuto un figlio, Luigi (II), nato a Milano il 3 genn. 1831. Orfano di madre a sette anni, egli fu mandato dal padre, che lo voleva ufficiale, al Collegio militare Maria Luigia di Parma, che però abbandonò nel 1847 contro la volontà paterna per darsi anch'egli al teatro nei ruoli di amoroso. Gli avvenimenti politici del 1848-49 lo coinvolsero, come altri membri della famiglia: divenuto sergente nel 3° reggimento di linea della Repubblica Romana, prese parte allo scontro di Velletri e alla difesa di Roma. Dopo la caduta della Repubblica tornò al teatro, assumendo però ruoli di brillante, che sembrarono più adatti al suo temperamento e al suo aspetto, ottenendo buoni successi con le compagnie Costantini, Chiari, Zoppetti, Tassani, Andreani, Monti-Preda, Zammarini e Sivori-Sadowsky. Con l'età tornò alle parti di caratterista; nelle stagioni 1871-72 fu secondo caratterista con L. Bellotti Bon, e poi primo caratterista e primo promiscuo con F. Coltellini, Anna Pedretti e Giacinta Pezzana. Con Ermete Novelli rimase per tre anni, ed entrò poi nella compagnia Dominici, con la quale ottenne grossi successi al teatro Manzoni di Roma. Faceva parte della compagnia Falconi-Bertini quando, colpito da polmonite, morì a Bologna il 13 agosto 1890. Dalla prima moglie Luigia Barbini, sposata nel 1857, aveva avuto un figlio, Angelo, e una figlia morta infante. Nel 1861 si risposò con Amalia Manzoni.
Il figlio di Luigi (II) e di Luigia Barbini, Angelo (II), nato a Vercelli il 18 settembre 1858, entrò giovinetto come secondo amoroso nella compagnia di F. Coltellini, in cui lavorava suo padre, seguendo il quale passò a quella di Anna Pedretti come primo attor giovane. In seguito fu con Bellotti Bon e, nuovamente nel ruolo di secondo amoroso, con Virginia Marini; poi, come generico d'importanza nelle compagnie Nazionale, Marini e Garzes. Dopo la morte di Francesco Garzes nel 1895, entrò nella Ferrati-Rossi, ma presto decise di abbandonare l'attività teatrale, accettando la cattedra di recitazione dell'Accademia di S. Cecilia a Roma. Nel 1880 aveva sposato Annetta Marini anche lei attrice, sorella di Virginia, che spesso recitò insieme con lui e morì a Roma il 15 agosto 1927, mentre Angelo morì a Roma il 17 marzo 1941.
Fonti e Bibl.: Roma, Biblioteca dell'Istituto di archeologia e storia dell'arte, ms. 21, A. Colomberti, Memorie artistiche dei più distinti comici e comiche…, p. 146 (per Luigi I); ms. 22, Cenni artistici de' comici italiani…, pp. 247-250 (per Luigi I), 251 (per Gaetano e Angelo di Luigi I); Ibid., Biblioteca teatrale del Burcardo, ms. 3-42-8-33A; Giornaletto ragionato teatrale, Venezia 1820; F. De Sanctis, Una commedia nuova, in Rivista contemporanea, III (1856), 5, pp. 323-336; F. Regli, Diz. biogr. de' più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici…, Torino 1860, pp. 225-229 (per Gaetano), 229-230 (per Luigi I); G., Gaetano, in A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, p. 492; C. Trevisani, Delle condizioni della letteratura drammatica italiana nell'ultimo ventennio, Firenze 1887, pp. 150, 184; E. Rossi, Quarant'anni di vita artistica, I, Firenze 1887, pp. 62, 64 s., 262 (per Gaetano); G. Gattinelli, Teatro drammatico…, a cura di A. Prina, I-II, Roma 1887 (introduzione biografica); G. Costetti, La Compagnia reale sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano 1893, passim (per Gaetano); L. Rasi, I comici italiani, I, Firenze 1897, pp. 994-998 (per Luigi I), 998-1001 (per Gaetano), 1001 s. (per Angelo I), 1002 s. (per Luigi II), 1003 s. (per Angelo II); G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800, Rocca San Casciano s.d. [1901], pp. 79, 112, 128, 530; R. Lelièvre, Le théâtre dramatique italien en France 1855-1940, Paris 1959, pp. 20-31, in particolare p. 28 (sulla tournée in Francia; cfr. anche Le Figaro, 27 maggio 1855); F. Doglio, Storia del teatro, III, Dal barocco al simbolismo, Milano 1990, p. 350; Enc. Italiana, XVI, p. 451; Enc. biogr. e bibliogr. "Italiana", N. Leonelli, Attori tragici, attori comici, I, Roma 1940, pp. 421 (per Angelo I), 422 s. (per Gaetano) 423 (per Luigi I), 424 (per Angelo II); Enc. dello spettacolo, V, coll. 978-980; Catalogo dei libri italiani dell'Ottocento, Autori, III, p. 2081 (segnala alcune delle opere edite di Gaetano).
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