martedì 18 ottobre 2016

Dario Fo e la Romagna



Dario Fo e Franca Rame erano di casa in Romagna, avendo acquistato vari decenni fa una villa di campagna a Sala di Cesenatico, dove trascorrevano molti mesi e dove sono stati concepite molte delle loro opere più importanti. A Cesenatico Dario Fo ebbe per vari anni come collaboratore un poeta e intellettuale locale, Walter Valeri, ora docente negli Stati Uniti, di cui ospitiamo in forma integrale un suo recente intervento su un noto social network.

Mio caro Roberto, amico carissimo oltre che poeta di grande valore, mi sento in dovere di scendere in campo al tuo fianco in questa assurda polemica (assurda perche' davvero incomprensibile) per varie ragioni: 1) perche' ero loro assistente, responsabile dell'Ufficio Estero e cessione dei diritti internazionali delle loro opere, e lavoravo giorno e no0tte con Dario Fo e Franca Rame quando a Sala di Cesenatico scrivevano le loro commedie, i loro monologhi, disegni, dipinti, costumi, etc. 2) verificavamo assieme, parola per parola, le traduzioni delle loro opere tradotte in varie lingue. 3) preparavamo i materiali necessari per le loro tantissime tourne' internazionali, (Parigi, Berlino, Madrid, Londra, New York, Atene, Bruxelles, Copenaghen, ecc) nel periodo (1980- 1995, prima di trasferirmi negli Stati Uniti ed iniziare il mio insegnamento alla Harvard University e successivamente al Boston Conservatory), 4) sono stato il coordinatore della manifestazione internazionale UN PALCOSCENICO PER LE DONNE prodotto e voluto da Franca Rame, presentato al Comunale di Cesenatico con enorme successo. Devo dire che solo chi e' in malafede e/o minuscolo di cervello puo' sostenere che non ci sia un rapporto creativo diretto, non esista un cordone ombellicale piu' che evidente, fra le opere del Premio Nobel per la Letteratura Dario Fo e la citta' di Cesenatico. Solo per fare un esempio: la canzone di Fo e Jannacci "Si potrebbe andare tutti allo Zoo Comunale" (lo zoo di Cervia, tanto per essere piu' espliciti), e' nata nella terrazzina di Primo Grassi, in un giorno di noia e pioggia insanabile. Di questi aneddoti ci sarebbe da riempira la Biblioteca Comunale di Cesenatico, ma diamo tempo al tempo, magari un giorno lo faremo... Ora, per concludere, vorrei aggiungere e proporre all'attenzione dei tanti 'ciechi e sordi volontari' della nostra citta' un articolo apparso nel Numero 2 della rivista online LA MACCHINA SOGNANTE. Tanto per far sapere cosa penso io (cosa pensa un cesenaticense residente negli Stati Uniti) del teatro di Dario Fo e Franca Rame.

DARIO FO: LA SFIDA DEL TEATRO AL POTERE (Walter Valeri)
30 marzo 2016. La macchina sognante, La macchina sognante num. 2, Teatrocorpo dell'attore, Dario Fo, potere, scrittura teatrale, sfida, Teatro.

Al di là dei valori letterari, spesso traducibili in gerarchie, chiavi d’accesso al consumo della cultura come prodotto di eruditi per eruditi, Dario Fo e Franca Rame con la loro ‘poetica militante e rappresentazione epica, come l’ha definita Simone Soriani nel suo ottimo saggio Dario Fo, dalla commedia al monologo, hanno segnato e segnano in concreto la ripresa di una critica al potere politico, che ha radici nel Medio Evo, esplosa in Italia alla fine degli anni Sessanta. La loro era, ed è tutt’ora, una sfida a quelle aree di potere, alte gerarchie della chiesa, della magistratura e dello stato, che operano costantemente per il mantenimento della ‘città dei privilegi’ (inclusi certi aspetti elitari delle avanguardie teatrali, molte delle quali oggi decisamente istituzionalizzate) in termini sociali, estetici, organizzativi e politici. La cronaca dei finanziamenti pubblici, il silenzio degli esclusi, la scienza dei linguaggi, inclusa la sociologia della letteratura e la semiologia teatrale, sono strumenti nati per evidenziare i nessi che legano teatro e società, letteratura e vita sociale, cronaca ed azione drammatica; non per nasconderli o addirittura negarli come spesso capita. Eppure il Nobel a Dario Fo e (moralmente) a Franca Rame ha scandalizzato e continua impunemente a scandalizzare i più intimamente. Ce lo dicono i loro sorrisini, le loro reticenze o aperti mugugni che attingono all’area più retriva e reazionaria della nostra società. Forse vale la pena tornarci sopra insistendo per ricordare che il Potere ha sempre sentito forte la tentazione, meglio dire la necessità, di frapporre figure sussidiarie fra l’attore, il palcoscenico e il pubblico. Necessità già testimoniata nell’Amleto, come ha scritto Tessari in un suo breve ma illuminante saggio: “Una compagnia di attori banditi dalla grande città, randagi tra la sparsa folla dei vagabondi, si avvicina al castello. Crede e spera di poter divertire con i suoi spettacoli i signori del luogo. E’ accolta. Il Principe che li ospita, tuttavia, non pare interessarsi un granché al loro repertorio. O, meglio dire, vuole essere lui a scegliere il dramma che sarà allestito. E, soprattutto, esige che sia rappresentato con alcune importanti ‘correzioni’ funzionali al suo disegno politico.” La storia la conosciamo bene. Quello che conta qui, per noi, è il fatto che questo episodio colloca il principe di Danimarca non solo fra gli esordi della storia della regia ma segna anche i primi intimi passi del moderno rapporto tra teatro e politica, per cui le stesse “norme del Castello e dei tempi, imponevano un’istanza di primitiva pedagogia, intesa a riformare l’arte della recitazione” soprattutto il suo ruolo nella raccolta del consenso. In altri termini la censura del potere.
In che cosa consiste, quando, se è lecito chiedere, entra in collisione la pratica teatrale di Dario Fo e Franca Rame con quella del teatro borghese ufficiale – nonché il nascente teatro pubblico? Sin dall’estate del 1953, quando Giorgio Strehler e Paolo Grassi autorizzarono le prove per un’estiva del Dito nell’occhio, di Dario Fo, Franco Parenti e Giustino Durano. Titolo che, fra l’altro, coincideva con quello di un rubrica satirica di Parenti per le colonne dell’Avanti, ben presto soppressa.
Erano gli anni, non lo si deve dimenticare, immediatamente a ridosso e successivi a quelli del Politecnico di Vittorini, chiuso per conflitti insanabili con la direzione del Partito Comunista. Erano gli anni della destra Democristiana di Scelba al governo. In quel contesto Dario Fo e Franca Rame imboccarono la strada del tutto impervia per una nuova socialità del teatro d’attore. Un obbiettivo non ancora completamente messo a fuoco a loro stessi e agli altri. Sarà la repressione, come sempre, a rendere chiari i contorni e lo spessore antagonistico di quel genere di teatro del tutto nuovo e anomalo. La stessa trasmissione radiofonica di esordio del 1951, Cocoricò, era stata censurata alla diciottesima puntata. Col passare del tempo la morsa non si è certo allentata se nel corso di un’intervista del 1962, con ironia, Dario Fo risponde alle critiche rivoltegli da ogni parte: “Gli autori negano che io sia un autore, gli attori negano che io sia un attore. Gli autori dicono: tu sei un attore che fa l’autore. Gli attori dicono: tu sei un autore che fa l’attore. Nessuno mi vuole nella sua categoria. Mi tollerano solo gli scenografi.”

Erano gli anni di "Isabella tre caravelle e un cacciaballe" e la critica lo accusava di non realizzare uno straccio di ideale estetico (neppure brechtiano!). Eppure Dario Fo e Franca Rame allestivano spettacoli di grande impatto, derivati dal teatro popolare d’attore. Impiegando le risorse del varietà, la farsa, il mimo, il clown, il teatro di figura, il cabaret, l’affabulazione, il fumetto, il cinema muto, realizzando una drammaturgia impura e unica. Indefinibile e fortemente segnata dal permanere dell’oralità, in cui il genio di Ruzante e l’idealizzazione del giullare medievale (ma anche la farsa evoluta e il teatro della beffa) si intrecciano con la cronaca, secondo un’ottica per cui l’attore realizza e subordina tutti gli elementi della rappresentazione ed è l’uomo della cultura orale, in chiave contemporanea, che si fa scena. Parlando del Nobel a Dario Fo non si può tacere il conflitto, anche esegetico, dell’intera sua opera con l’istituzione letteraria e teatrale del nostro Paese, incluse certe frange progressiste, che pure una volta si sono identificate con le parole di Franco Quadri poste in apertura del volumetto "Il teatro di regime", edito da Mazzotta nel 1976: “Torna a presentarsi l’urgenza di una rivoluzione, a livello prima di tutto teatrale, s’intende, di strutture e di modi di espressione: perché l’andamento del microcosmo teatrale riflette come uno specchio fedele quello dello Stato in cui viviamo. Con qualche fermento, con qualche scossone, da annegare nel montante stagno riformista.” Parole vere e giuste, allora come ora. Ma oggi, va detto chiaro e tondo, la città dei privilegi, come ha con forza sottolineato già anni fa Desmond Tutu, durante un ciclo di conferenze in Nord America, ha radici sulle opposte sponde, quello reazionario e quello progressista; incluso il pensiero, l’operato degli oppositori di un tempo.

Nel caso di Dario Fo e Franca Rame i conflitti con le aree di privilegio sono sempre stati chiari, pesanti e radicali. Non traducibili in divergenze accademiche, o di ordine meramente estetico. Senza voler elencare la lunga sfilza di processi, censure, attentati, minacce (sino al rapimento e la violenza atroce subita da Franca Rame) non sarebbe male riflettere sul nuovo genere di intolleranze che si affacciano sull’orizzonte del loro operato. Dario Fo e Franca Rame sono depositari di una funzione sociale importantissima, assegnata da un enorme seguito popolare e da oltre sessant’anni ininterrotti di teatro civile, caso unico nella storia del teatro di tutti i tempi; secondo un mandato che va aldilà dell’ideologia, pur contenendola indiscutibilmente. Fo è, assieme all’uomo della cultura orale, il grande grande architetto della dissacrazione, l’affabulatore anarcoide che rischia l’estinzione nell’era del digitale e dello smart-phone. Lo stesso Franco Fortini, critico, poeta e intellettuale fra i più autorevoli del secondo dopo-guerra (che pure aveva non poche resistenze nei confronti del teatro di Dario Fo e Franca Rame) riconosceva in Fo, durante un nostro colloquio personale al Teatro Greco di Milano, il massimo autore comico italiano. Soprattutto nel Mistero Buffo, vedeva semplificato il pensiero di Walter Benjamin, per cui: la comicità è il rovescio interno, obbligato, del lutto. Inteso come sofferenza per la perdita di dignità, o lotta per l’identità politica di un popolo e di una cultura. Specie per una cultura enfatica e partecipativa, epica, vecchia di secoli, che ha origine espressiva nelle arti e nei mestieri dell’alto Medio Evo, nella cultura contadina e nella piccola borghesia artigiana tipica dei villaggi italiani, sino alla fine deli anni cinquanta, filtrata da una coscienza gramsciana e marxista.
All’inizio di un interessante documentario, oggi datato e da rivedere, dedicato a Dario Fo e Franca Rame dal titolo "Un Nobel per due", realizzato da Filippo Piscopo e Lorena Luciano, presentato alla Biennale di Venezia, alla domanda dell’intervistatrice, che menzionava il Nobel per la letteratura appena ricevuto, Fo ha risposto: “Un attore, io vorrei essere presentato (e quindi ricordato) come un attore". Dunque Dario Fo insiste nel voler essere considerato semplicemente un attore. E, secondo me, a ragione; anche se le sue settanta e passa commedie, a cui ora si aggiungono alcuni romanzi, libri di memorie, dipinti a non finire, più un significativo manuale per l’attore aggiornato di recente, perché nel suo teatro, anzi nel loro teatro, oltre che per la forma e i contenuti svettano per quel loro modo di guardare e lasciarsi guardare. Nel modo di trasferire il corpo dell’attore e dell’attrice nella scrittura, di modulare la voce, di dislocarsi nello spazio scenico secondo un canone che accoglie nella recita le emozioni e le reazioni intellettuali di un pubblico popolare. Come ha ben chiarito Bernard Dort, un critico di cui sentiamo enormemente la mancanza, “ Dario Fo ha tutto per essere un mimo prodigioso. Sa riunire in un gesto della mano, del braccio e del corpo, quei movimenti casuali ai quali non cessiamo di abbandonarci. Ma quello che appare sono le figure mutevoli, transitorie degli uomini immersi nella storia e nella lotta delle classi.” Per poter fare questo, naturalmente, occorre che la cifra autorale e letteraria che l’attore impiega non sia quella del puro e semplice interprete, ma un parametro espressivo epico, aperto al mandato del pubblico presente nella sala e dinamico . Certo una variabile che solo i macchinisti possono tollerare. “L’unica soluzione per risolvere il problema del rinnovamento del teatro, sarebbe quella di costringere gli attori e le attrici a scriversi personalmente le proprie commedie. Gli attori devono imparare a fabbricarsi il proprio teatro. A che serve l’esercizio dell’improvvisazione? Per tessere e impostare un testo con parole, gesti e situazioni immediate; ma soprattutto a far uscire gli attori dall’idea falsa e pericolosa che il teatro non sia altro che letteratura". Perché anche l’attore persegua una sua istanza poetica, dignità espressiva, secondo la ben nota definizione di Anceschi, per il quale “la poetica rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali". E per quanto riguarda i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali bisogna proprio dire che Dario Fo in questo ci è stato maestro.

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